A fuoco lento

Ugo e Michel | La grande abbuffata |

Ci sono piatti che richiedono misura e attenzione. Un errore può essere fatale. Gli ingredienti devono essere dosati con accortezza e la cottura calibrata con cura. Ci vuole fiuto, per cucinarli, e il giusto grado di sensibilità e di voluttà. Sappiamo di amicizie decennali messe a dura prova da discussioni sul momento giusto della salatura.
Ci sono altri piatti, invece, che tollerano gesti grossolani, amano ingredienti di recupero e godono delle lunghe cotture. A volte, lunghissime. Sono quelli che amiamo di più.

Prendi il ragù, per esempio. Certo: il trito di cipolla, carote e sedano deve essere fine, ma se lasci il sugo a cuocere per ore, diverse ore, chi mai potrà accorgersi di eventuali gesti grossolani e imprecisi, fatti con naturale noncuranza, mentre si affettavano le verdure? E poi c’è la scelta delle carni da tritare, maciullare, sminuzzare, tagliuzzare. A noi piace metterci tutto quello che abbiamo a portata di mano: trito di carne, bistecche spaiate, hamburger solitari, affettati che hanno perso il profumo, pezzi di salsiccia…
È facile fare un ragù come il nostro. Basta non avere fretta. Buttiamo la cipolla, la carota e il sedano, sminuzzati alla bell’e meglio, nella casseruola con l’olio. Ci aggiungiamo la carne e sfumiamo con il vino rosso avanzato dalla sera prima (e, se è avanzato, non era certo la bottiglia migliore). A quel punto, aggiungiamo la passata di pomodoro, saliamo e pepiamo. E lì, comincia la lunga cottura. Lunghissima.

Il nostro ragù è una sfida col tempo. Non è mai successo che cuocesse per meno di otto ore. Una volta è rimasto sul fuoco, bassissimo, per tre giorni e due notti. Basta essere insonni e non dimenticarsi di rimestare il sugo ogni tre o quattro ore. Dopo un po’, l’odore denso e avvolgente, sprigionato dalla larga casseruola, ti riempie le narici, ti entra sotto la pelle, ti altera i sensi e apre le porte della percezione.

Il ragù è il piatto giusto per la serialità e il binge watching. Una stagione delle produzione di Amazon Prime si compone mediamente di una decina di episodi da una cinquantina di minuti. Il tempo giusto per fare un ragù decente.

Le tagliatelle fumanti che scodelleremo tra poco nei nostri piatti sono nate sotto luce azzurra della prima stagione di Treadstone.

La storia è semplice… Robert Ludlum ha dato il via a una serie di romanzi con protagonista Jason Bourne, supersoldato affetto da un’amnesia che gli impedisce di sapere da dove vengano i suoi superpoteri. Vive un drammatico dilemma morale: è nato da un progetto deviato della CIA e, ora che ha scelto il bene, non è in grado di garantire la propria rettitudine passata. Dopo tre romanzi firmati da Ludlum, il personaggio è tornato in un’altra dozzina di libroni scritti da Eric VanLustbader, vecchia volpe dell’azione e della serialità. Il supersoldato smemorato è stato protagonista di film d’azione che si lasciano guardare, interpretati da quel patatone di Matt Damon. Treadstone è il nome del progetto malvagio della CIA. Mentre il nostro ragù continua a bollire, i servizi segreti statunitensi e sovietici scaldano la gelida atmosfera della guerra fredda a colpi di ipnosi, farmaci, LSD e condizionamenti. Supersoldati, capaci di tirare Guyver kick manco fossero Yuri Boyka, rientrano nella società infilandosi inconsapevoli in posti da infermieri, mamme a tempo pieno, operai sulle piattaforme petrolifere… Smettono qualsiasi attività fisica, mangiano snack e bevono birra con gli amici, trascorrono qualche lustro in stato patatonico in attesa di essere risvegliati da una filastrocca per bambini. Sono inarrestabili macchine da guerra dormienti che vengono riattivate da un innesto pavloviano. E, a quel punto, sono capaci di centrare sei bersagli in un secondo con una pistola; sgangherare un esercito di mercenari crudeli al servizio di una mafia, muovendosi con agio in un ambiente chiuso in cui tutti sparano; massacrare, a botte di ju-jitsu, nemici che trascorrono quattro ore al giorno in palestra a studiare le tecniche del krav maga…

La verosimiglianza non è un dovere e, avvolti dai fumi del ragù, siamo disposti a sospendere l’incredulità più del solito. Anche quando i pezzi di scotch da pacco che tengono insieme il blando canovaccio della narrazione cedono e ci mostrano lo scheletro del racconto: ci mette allegria perché scopriamo che è giallo fluorescente ed è fatto di Didò.

Siamo insonni, lo sai, ma non invincibili come un soldato di Treadstone. Durante la visione della serie, un po’ alla volta, le palpebre diventano pesanti e la testa cade in avanti. I nostri sogni di vapore di carne e salsa si avviluppano intorno alla narrazione: non cercano coerenza e hanno la stessa consistenza. Fortunatamente, una cantilena ci risveglia: sicuri ci alziamo, facciamo ripartire la gallinella segnatempo, raggiungiamo la casseruola, recuperiamo il cucchiaio di legno e lo immergiamo con decisione nel sugo. A questo punto è bello sentire nelle membra intorpidite la resistenza della carne che si è adagiata sul fondo. Con movimento rotatorio, lento, saldo, inesorabile, liberiamo il ragù da grumi e addensamenti. Poi estraiamo il cucchiaio, lo picchiamo lievemente sul bordo della pentola e lo portiamo alle labbra per assicurarci, per l’ennesima volta, di non essere in debito di sale.

Possiamo tornare a cuocere lentamente di fronte alla nostra serie. In fondo, dopo tutte quelle ore sul fuoco, chi sarà realmente in grado di valutare la qualità degli ingredienti e della preparazione?

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