Fabian Negrin: Sei quello con cui ti guadagni da vivere

Paolo Interdonato | Una pietra sopra |

Intervista a Fabian Negrin, originariamente apparsa su “Lo Straniero”, novembre 2006.

Cosa rispondi a chi ti chiede che mestiere fai?

Quello che dice il mio documento d’identità: l’illustratore. Illustro libri, riviste, manifesti… Oggi la scrittura ha preso il sopravvento ma è anche una questione di soldi: sei quello con cui ti guadagni da vivere. Poi, se in queste ultime settimane ho solo scritto, sono affari miei.

Come hai iniziato?

In Messico. Lì, quando mi chiedevano che mestiere facevo, rispondevo che ero un grafico. Facevo anche molto fumetto e tanti disegni per i giornali, ma non avrei mai detto di essere un illustratore, perché non c’era il colore. Secondo me l’illustrazione è legata all’uso del colore. Se uno fa solo disegni in bianco e nero non si può considerare un illustratore. Di Steinberg dici che era un disegnatore, non un illustratore. E poi in Messico la stampa era quasi esclusivamente in bianco e nero.

E a un certo punto ti è arrivato il foglio di via e ti hanno cacciato dal Messico…

Ero là per studiare e mi è scaduto il permesso di soggiorno. Ho fatto l’università e, più o meno quando stavo finendo, c’è stato uno di quei grossi terremoti: 70.000 morti. Tanti edifici pubblici sono crollati perché erano fatti con la sabbia invece della calce, ed è caduto anche il Ministero degli Interni con dentro tutti i permessi di soggiorno. Dunque, per due o tre anni, c’è stato un interregno in cui se non avevi il permesso di soggiorno dicevi: “Bé… E’ rimasto sotto le macerie del Ministero degli Interni”. Dicendo così, per un po’ ho fatto il capo dell’ufficio grafico di una rete televisiva locale, l’art director di una rivista superfiga, il fumettista di strisce settimanali. Poi ho fatto un concorso per entrare in università e l’ho vinto…

Volevi fare carriera accademica?

Se fossi rimasto in Messico penso che l’avrei fatta. Era una cosa molto comune: la gente appena laureata in grafica iniziava a insegnare nella stessa università. Molto incestuoso. Ho avuto tanti professori con pochi anni più di me che non avevano mai veramente lavorato come grafici. Allora ho vinto il concorso e l’università ha dovuto iniziare le pratiche per darmi il posto, hanno chiesto al Ministero il mio permesso di soggiorno, hanno scoperto che non ce l’avevo più e mi è arrivato il foglio di via. C’era la possibilità di insistere e far in modo che alla fine mi dessero il permesso di soggiorno, ma dopo otto anni di Messico avevo voglia di venire in Europa.

E sei venuto in Italia?

E’ stato un caso che fosse l’Italia, avevo un amico a Milano e l’ho raggiunto. Qui ho cominciato a girare tutte le redazioni per un paio di mesi col mio portfolio e, subito dopo, ho cominciato a lavorare. Non c’erano tanti illustratori in giro come adesso. E poi i bravi illustratori della mia età mi sembra schifassero i giornali d’attualità e di moda (tranne “Vanity”), e io dovevo lavorare. Questi giornali non erano preclusi all’illustrazione, e in più c’erano alcuni art director alla mano e intelligenti. Tra il 1989 e il 1994 ho fatto “Centocose”, “Sette” del “Corriere della Sera”, “Marie Claire”, “Panorama”, “Grazia”… E’ stato graduale. Su “Marie Claire”, per esempio, ho iniziato facendo qualche disegno; poi una sezione in cui comparivano cinque piccole illustrazioni ogni mese; poi mi hanno chiesto di disegnare l’oroscopo che per loro era importante; poi una pagina piena… Forse anche il fatto di arrivare dal Messico giocava a mio vantaggio: “Ah! Vieni dal Messico? Ehi! Mica è Cascina Gobba!” Non erano ambienti chiusi. Adesso nelle redazioni non lasciano neanche entrare gli illustratori. Ti dicono: “Sì, grazie, lasciaci il portfolio!”.

Quando hai iniziato a illustrare hai cercato di maturare tecnica e stile o hai iniziato subito sperimentando?

Il mio problema era che non sapevo usare il colore, perché il mio lavoro fino ad allora era stato principalmente in bianco e nero. Dipingevo anche, però erano cose così diverse da quello che potevo fare per i giornali che, in quel momento, non ero capace di tradurle in qualcosa di utilizzabile. Dunque ho cominciato a fare dei collage, delle robe piatte. Per fare un collage, ritagliavo lo stesso giornale che poi l’avrebbe pubblicato. Prendevo il numero di luglio di “Marie Claire” ritagliavo pezzi di pubblicità, o di moda, facevo i collage e li vendevo per il numero di agosto. E mi davano dei soldi! Poi ho cominciato a provare altre tecniche. Per esempio, su “Centocose” facevo le illustrazioni per la sezione di ginnastica ritmica e lì dovevo disegnare dei corpi in posizioni precise. Su quei disegni provavo alcune tecniche coi colori che dopo potevo usare nelle illustrazioni più grandi. E tutto ciò è durato per i primi due o tre anni in cui ho cominciato a usare veramente il colore. Ho sperimentato soprattutto su “Marie Claire”, “Centocose” e “Fortune”.

E le illustrazioni per “Sette” del “Corriere della Sera”?

Facevo l’ultima pagina. Carlo Rizzi, quando era a “Fortune”, è stato il primo art director a darmi lavoro. Quando poi ha fatto il restyling di “Sette”, ne ha ridotto il formato e ha messo in ultima pagina una cornice illustrata da me con dentro un testo di un libro di comici: Le formiche, Gino & Michele, Michele Serra e tutti quei libri merdosi. Dopo un paio d’anni hanno cambiato il direttore. Claudio Sabelli Fioretti è andato a dirigere “Cuore” ed è arrivato un altro. E’ impressionante come sia cambiato il clima in redazione. Sabelli Fioretti era molto alla mano, andavi nel suo ufficio e chiacchieravi. E’ arrivato quello nuovo e tutti a leccargli i piedi. Ma non credo si tratti di un caso particolare, a confronto con le redazioni dei giornali messicani – più democratiche, direi – in Italia il direttore del giornale è praticamente dio.
Ero in ferie e, quando sono tornato, avevano ridotto il mio disegno fino a farlo diventare una specie di cornicetta e avevano ripubblicato un’illustrazione vecchia. Sono andato a parlare col nuovo direttore e ho chiesto: “Cos’è questa roba? Non mi sembra che ci sia la stessa libertà che c’era con Sabelli Fioretti…” Lui si è irrigidito, si è alzato e ha chiuso la porta del suo ufficio. E’ tornato e ha detto: “Guarda, mi hanno messo qua per cambiare le cose e le devo cambiare”. E cambiare quella stronzata che facevo io in ultima pagina era molto visibile e facile. Una delle prime cose che si fanno per “rinnovare” un giornale è far scomparire le illustrazioni. Lo ho visto succedere più volte. E’ qualcosa di fisiologico: l’illustrazione nei giornali è molto legata al gusto del momento, all’aspetto più evanescente del visivo.

E poi ti è venuta una crisi perché le illustrazioni per rivista non durano…

Dopo un po’ che non lavoravo più né per i femminili né per “Sette”, sono tornato in redazione a cercare un numero di “Sette” di un anno prima, e non l’avevano più. Non esisteva più! Era passato solo un anno e restava solo un esemplare per l’archivio. In quegli anni lavoravo sedici ore al giorno, dal lunedì al sabato. Un lavoro molto intenso. Mi sono sentito come se stessi buttando i disegni dalla finestra: guadagno un sacco di soldi, imparo tante cose col mio lavoro, mi piace pure… dopodichè… non resta nulla! In quello stesso momento, attorno al 1995, Donatella Ziliotto della Salani mi ha chiesto di illustrare il mio primo libro L’uomo che sapeva contare di Malba Tahan, ancora in ristampa. Poco dopo sono andato anche alla Mondadori Ragazzi, dove avevano cambiato, e in meglio, l’art director. Era arrivato Giacomo Spazio, che aveva aperto le porte non solo a me ma anche ad altri disegnatori. Ho passato molti anni a lavorare per queste due case editrici. Poi ho trascorso un anno a Londra e questo mi ha permesso di trovare un agente e iniziare a pubblicare per inglesi e americani.

Come è stato passare dall’immagine per accompagnare articoli all’immagine narrativa destinata a bambini e ragazzi?

Fare libri per i bambini è un po’ come fare libri per i marziani. Ti ritrovi a pensare a loro in modo molto astratto. Capiranno questa frase? Quell’immagine non sarà troppo violenta?. Come se i bambini formassero un’entità omogenea e indifferenziata che capisce e reagisce in massa e che, a differenza degli adulti, non comprende degli individui ma, appunto, degli indistinti marziani. I bambini, però, a differenza dei marziani, la Terra un giorno la conquisteranno per davvero, e questo finisce per caricare di responsabilità il fatto di lavorare per loro.
Ma all’inizio lavorare per le riviste e per i libri per bambini era per me lo stesso, un lavoro che mi permetteva che quei disegni che già facevo non venissero buttati dalla finestra. Dopo un po’, però, ho cominciato a chiedermi cosa ci fosse di specifico in quel lavoro. Ho telefonato ad Antonio Faeti e gliel’ho chiesto: “Faccio questo lavoro da un po’ e comincio a chiedermi di cosa si tratti. Non penso che sia come fare un disegno per un giornale o per la pubblicità delle ferrovie”. Lui mi ha risposto: “E’ bello che tu ti ponga queste domande. Leggi il mio libro Guardare le figure”.
Nel libro c’era una frase che mi ha colpito che diceva più o meno così: i libri per bambini devono essere sovversivi. Però – ho pensato – capita a fagiolo. Io vengo da una famiglia valdese e trotskista! Poi, attraverso il lavoro, mi sono convinto che la cosa specifica dei libri illustrati non è la presenza di belle immagini e parole sublimi, ma l’unione di queste due cose: il libro illustrato come un insieme. E mi sono convinto ulteriormente della necessità di modificare il tipo di segno in funzione del testo sul quale lavoro.

E arriviamo alla questione dello stile. Perché ti viene voglia di cambiare segno e tecnica da libro a libro?

Io cambio per evitare la noia. Se non trovo uno stile giusto per accompagnare un testo mi annoio. Addirittura, nello stesso libro, dopo che ho trovato lo stile, mi stufo. Per esempio l’ultimo libro che ho fatto, Capitan Omicidio di Dickens, è stato stimolante quasi fino alla fine, ma le ultime due o tre immagini sono state le più dure da fare perché ormai sapevo come farle. Se si lavora in un contesto in cui le proprie immagini stanno a contatto con il testo scritto da un’altra persona, e questo nell’illustrazione succede sempre, le immagini devono in qualche modo mettersi in relazione con quest’altro mondo. E questo fatto deve modificare il mio modo di lavorare, se non radicalmente almeno in parte, se non in parte in qualche piccola cosa, altrimenti questa collaborazione non ha nessun senso. L’illustrazione non è autonoma, è sempre a contatto con altre discipline: letteratura, grafica, stampa, cartotecnica. Checché rivendichi Brad Holland, l’illustrazione non ha niente a che fare con l’arte, non è né peggio né meglio dell’arte: è semplicemente qualcos’altro.

Ti consideri al servizio della storia?

Sì, della storia. Non del testo. La storia è il testo + l’immagine + la grafica + la stampa. L’ideale sarebbe che poi anche il testo di partenza cambiasse. A volte lavorando su testi miei, dopo aver fatto i disegni, con Orecchio Acerbo riusciamo a cambiare alcune cose. Però normalmente non c’è più tempo, perché il libro deve andare in tipografia, perché sono già stati fatti i lanci, eccetera. Però l’ideale sarebbe che dopo che l’illustratore ha fatto i disegni, lo scrittore riprendesse in mano il suo testo e lo modificasse in funzione delle immagini. Perché dirmi com’è vestito quel personaggio se c’è già l’illustrazione?

Perché hai iniziato a scrivere le storie che disegni?

Scrivere è una cosa che faccio da sempre, come disegnare. Forse con meno assiduità, però già a 15 anni, quando facevo fumetti, scrivevo anche le storie. Adesso con Orecchio Acerbo c’è la possibilità di fare dei libri coi miei testi. Bacio loro i piedi.

Però prima hai scritto Lerolero e altre storie per Mondadori?

Volevo dare un’altra occasione alle cornici fatte per l’ultima pagina di Sette, che mi sembrano tuttora un insieme d’immagini belle e forti. Così ho scritto delle storie da inserire dentro quelle cornici per fare un libro che durasse più di un giornale. Nel frattempo ho conosciuto in Mondadori Francesca Lazzarato, e le ho proposto questi racconti. Poi li ho resi più lunghi e li ho illustrati, giacché la collana dove venne pubblicato Lerolero era in bianco e nero. E così le cornici, all’origine di tutto, non furono usate. In questo modo ha preso piede, però, la scrittura. Anche perché alla fine non è che ti propongano sempre dei capolavori da illustrare. E se oltre ai disegni scrivi il testo, prendi il doppio delle royalties!

Quindi ti è capitato di illustrare cose che non ti piacevano?

Lo sappiamo tutti che si pubblicano un sacco di schifezze, e i libri per ragazzi non fanno eccezione. Direi che il livello dell’illustrazione nei libri per ragazzi è superiore al livello dei testi, anche se nella generazione che viene dopo la mia – la mia è quella di Mulazzani, Matticchio, Spider, Ghermandi – noto un calo, forse c’è una maggiore coscienza del proprio mestiere, ma mancano questi personaggi che arrivavano e spaccavano alla loro prima apparizione pubblica. Ad esempio in Italia non è emerso alcun grande illustratore che lavori veramente col computer, come in America J. Otto Seibold, per capirci; ed era da questa nuova generazione che dovevamo aspettarcelo.

Fai libri illustrati da te e scritti da altri, libri che scrivi e illustri da solo, libri che scrivi e che illustra qualcun altro. C’è una differenza nell’approccio?

In realtà fino a ora ho separato abbastanza i momenti di scrittura e d’illustrazione.

Pensi prima alle parole?

A volte sì, ma a volte capita che dei racconti siano nati da un’immagine che nel libro non c’è, come ti dicevo per le cornici. Ma anche ne Il mondo invisibile, il racconto dell’isola dei pinguini e dell’aviatore, deriva da un’illustrazione che avevo fatto per un abbecedario delle Edizioni Stoppani. E tanti momenti di Fumo negli occhi vengono da illustrazioni per i giornali. Dunque da quelle immagini sono sorte delle storie che una volta scritte hanno generato nuove immagini. Non c’è una sostanziale differenza nel processo quando illustro un mio racconto o uno di Dickens.

Da quello che dici emergono due direttrici del tuo lavoro: consapevolezza del mestiere e ricerca di storie all’altezza. Il tuo mestiere di illustratore al servizio di una storia scritta da un altro ne ha risentito?

Forse il voler anche scrivere è dovuto al fatto che l’illustrazione non mi soddisfaceva al 100% come prima. Altrimenti come spiegare questa fuga verso i testi? Allo stesso tempo c’è una grande tradizione di libri per bambini scritti e illustrati dalla stessa persona. Antoine de Saint-Exupéry non è un illustratore e ha disegnato Il piccolo principe. Leo Lionni con Piccolo Blu Piccolo Giallo. Maurice Sendak con Nel paese dei mostri selvaggi. Le cose di Raymond Briggs. E’ comune, in questo ambito, che prima o poi succeda.

Ti capita spesso di partire dalla struttura di una storia preesistente o da un vincolo. L’hai fatto rinarrando Cappuccetto Rosso in In bocca al lupo e riavvolgendo Pinocchio in Occhiopin. Poi hai voluto scrivere Fumo negli occhi, un libro di maghi negli anni di Harry Potter. C’è in questo una spinta strutturalista? O addirittura da esperimento di letteratura potenziale?

Gli zii architetti, con cui vivevo quando studiavo in Messico, erano strutturalisti, ed Eco, Saussure, Jakobson erano pane quotidiano. Il primo libro a fumetti che ho fatto in Messico si chiamava Baci in cucina. Dodici testi. Ognuno dei dodici fumetti raccolti era un fumetto con una regola, una tesi linguistica: un fumetto vuoto, un fumetto scritto in palindromi, uno dove si mescola fumetto e teatro, … L’insieme una vera schifezza inguardabile! Diciamo che adesso ho più fiducia nel fatto che si possa raccontare una storia. Adesso Gli esercizi di stile di Queneau mi sembrano noiosissimi mentre Zazie nel metro e I fiori blu mi piacciono molto. Quando ho iniziato, venticinque anni fa, era il contrario… Invecchio.

Però quando racconti dei libri che vorresti fare, parti sempre con un vincolo. Sembra che ci sia progettualità…

Lavorare partendo da un’idea mi viene anche dall’università di grafica, e dagli inizi del mio lavoro d’illustratore. C’è da fare un’immagine per questo testo e io voglio fare un bel disegno, ma che contenga anche del pensiero. Dunque tanti di questi racconti sorgono dal lavorare con delle idee, con l’intelligenza. Dopodiché non c’è una progettualità chiusa e di lungo periodo, di cui sono incapace proprio perché eclettico. Sono cose che si sviluppano giorno per giorno. Per esempio, quando stavo illustrando Occhiopin, sia nel testo che nelle illustrazioni, c’era una dicotomia tra città e compagna. In quei giorni c’era la questione del NO TAV e sentendo “Fahrenheit” su Radio Tre, c’era un filosofo di Torino, Maurizio Ferraris, che diceva qualcosa come “la natura incontaminata è un’idea, è una visione che abbiamo noi del mondo: non esista veramente”. Allora mi sono detto: “Cavolo! Occhiopin non si può ritrovare in una campagna meravigliosa perché ormai non esiste più la campagna meravigliosa”. E allora nel paesaggio ho cominciato a mettere tubi, piloni dell’alta tensione, che allo stesso tempo facevano rumore col testo. Quando ho scritto il testo la divisione tra città, campagna e questa roba a metà strada che nel libro si chiama Villette Barbecue era molto netta. Ma al momento di fare le illustrazioni, l’illustratore dice: “Ma sei scemo? La natura non c’è più! La campagna è piena di rifiuti tossici. Nel mare ci sono i tubi del petrolio che inquinano”. Dunque è come se l’illustratore avesse un grado di coscienza in più dello scrittore, anche se si tratta della stessa persona, perché viene dopo, perché è passato del tempo.
Questo tipo di approccio si interseca anche col corso di cartellonistica che ho fatto all’università, col cartellonista polacco Wiktor Gorka. Lui lavorava proprio sul rumore che si produce tra una parola e un’immagine. Sono stato un intero trimestre a fare un singolo manifesto. Si sceglieva una parola e si doveva trovare un’immagine che facesse rumore con quella parola. Io avevo lavorato con la parola “convivenza” che illustrai con una gabbia piena di uccelli.

E adesso cosa stai facendo?

Sto scrivendo un libro di racconti e histoires en estampes, ho finito di illustrare Capitan Omicidio di Dickens per Orecchio Acerbo, sto disegnando un libro per un editore coreano e facendo un libro d’incisioni con Pierluigi Puliti delle Edizioni Lo Sciamano. Si chiama Il Minotauro in giardino, e sarà stampato in quaranta copie. Così lunedì, martedì e mercoledì ho fatto incisioni. E’ molto diverso da disegnare, soprattutto nella posizione in cui mi trovo: sono un bravissimo disegnatore ma non so fare incisione. Ma c’è Puliti e lui mette il suo mestiere di incisore. Vado lì e su una lastra di rame disegno col pennello intinto in una sostanza quasi trasparente, si asciuga, si ricopre il tutto con un’altra sostanza, si passa sott’acqua, si riscalda col fuoco, poi la lastra si mette nell’acido e poi si stampa una copia, speculare rispetto al disegno. E’ una sorpresa! Una specie di fotografia di quello che ho fatto e di cosa sono in quel momento: oggi ho fatto questo, e se mi sento una merda, viene una merda; ma se viene un’immagine stupenda posso dirmi fortunato.

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