Ondulava

Ugo e Michel | La grande abbuffata |

(Le illustrazioni sono di Lucia Lamacchia, che è responsabile di quanto segue almeno quanto lo sono Ugo e Michel)

Come sempre succede quando facciamo delle cose molto divertenti all’aperto, abbiamo controllato che in giro non ci fosse nessuno. Certo, il rischio di essere scoperti è di per sé eccitante ma, se ci sorprendessero, dovremmo interrompere quello che stavamo facendo, sicuramente vergognandocene e, in questo modo, smettere di godere.

Diamo un’altra occhiata in giro. Nessuno che ci possa vedere, benché la panchina sia su un rilievo che offre una bella vista. Con gesto circospetto, ci sfiliamo un guanto di plastica e lasciamo che l’aria attraversi le dita e asciughi il sudore. Poi sganciamo la mascherina da un orecchio e la lasciamo a penzolare. Che sensazione di libertà.

Quanto ci è mancato il mondo. Dannazione!

Il sacchetto di carta è ancora caldo e presenta piccole macchie d’unto. Conosciamo Fabio da quasi trent’anni. All’inizio ci sarebbe piaciuto chiamarlo con il suo nome cinese, ma la sua risposta pudica («è troppo difficile per voi») era disarmante: sembrava volesse proteggere il suo vero nome e, siccome amiamo il ciclo di Earthsea di Ursula Le Guin, abbiamo deciso che non era il caso di indagare ulteriormente. Oggi, quando ci ha visto entrare nel suo locale, finalmente riaperto dopo mesi lunghissimi, ci ha mostrato un sorriso stanco e spaventato dietro una lastra di plexiglass. Una novità: un uomo che sembrava infaticabile, indifferente al tempo e inossidabile, oggi, ci è parso un po’ invecchiato. Solo cibo da asporto, ci ha avvertito. Abbiamo ordinato quattro porzioni di wanton fritti e una birra.

La donna ha le gambe lievemente divaricate. Tiene la mazza con due mani. Oscilla le braccia più volte, misurando l’impatto con la palla. Muove la testa lentamente, spostando lo sguardo verso un punto lontano. Quelle oscillazioni ci incantano. I capelli cadono morbidi, assecondando le movenze, e il caldo della primavera inoltrata ci si infila in mezzo. Ci piace immaginarne l’odore: la dominanza fruttata di un balsamo, l’incedere dolciastro del sudore fresco, la femminilità che ci è mancata da impazzire.

Il primo wanton scricchiola sotto i denti. Libera in bocca la fragranza della pasta che, mentre si sbriciola, si mescola al ripieno di carne. La recente riapertura e l’ancora scarsa frequentazione del locale di Fabio hanno fatto bene all’olio della frittura. Si sente bene il sapore di quella Cina ideale, conosciuta solo da lontano, che nel nostro immaginario di viaggiatori sedentari ha sempre avuto il sapore dei wanton fatti in Italia. Quella sensazione che esplode sulla lingua e risale nel naso. Quanto ci è mancato il mondo.

Il colpo secco della mazza sulla pallina ci riporta alla realtà. Il corpo della donna è arcuato. La gonna è ricaduta sulla gamba piegata, dopo essersi sollevata appena un poco. Lo sguardo insegue il moto della sfera bianca che noi abbiamo perso immediatamente. Ci dispiace smettere di guardare la donna ma dobbiamo cercare la palla. Sotto i nostri occhi si sviluppa un modo morbido, sinuoso, colorato. Ne amiamo le forme.

Il lockdown ci ha chiusi in casa, per difenderci da un virus che usa i corpi come mezzo di sopravvivenza. Questo tenerci lontani ha ridotto le possibilità di sguardo. La cosa che più ci è mancata durante la reclusione è stata la possibilità di guardare le persone. Le donne, soprattutto. I loro corpi e il loro muoversi, le voci e gli odori, il colore della pelle, l’insoddisfazione per il taglio di capelli appena fatto, le tracce nello sguardo di un litigio con l’amante, le efelidi, una clavicola che emerge dallo scollo di una maglia, il peso del seno mentre si piegano imprecando per raccogliere un cellullare caduto, l’indifferenza al mondo mostrata dalla noncuranza con cui quella mattina si è scelto un vestito, il morso del reggiseno visibile sotto l’ascella, la precisione della matita sugli occhi, la sbavatura del rossetta sulla tazzina del caffè, il cerotto sul tallone che fuoriesce dalla scarpa, la piega del gluteo contro la gamba tesa quando il passo è lungo, la mano che sposta i capelli dietro l’orecchio, le dita nervose che cercano di coprire la scalfittura sullo smalto fresco delle unghie, lo sguardo assente che diventa sorriso per un pensiero di passaggio.

Mentre guardiamo il mondo alla ricerca della palla, mangiamo rapidamente i wanton, prima che si freddino, alternandoli con sorsi di birra Tsingtao bevuta a canna. Non troppo fredda, perché Fabio quel frigo non ha mai saputo usarlo veramente. Altre forme, morbide e sinuose, e infine la palla, ferma, abbastanza vicina alla buca.

La donna si muove verso la palla, con passo spedito, per completare quello che ha iniziato. Non riusciamo a staccarle gli occhi di dosso. In testa i versi di Tre giovani fiorentine camminano:

«Ondulava sul passo verginale
ondulava la chioma musicale
nello splendore del tiepido sole
eran tre vergini e una grazia sola
ondulava sul passo verginale
crespa e nera la chioma musicale
eran tre vergini e una grazia sola
e sei piedini in marcia militare.»

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(Quasi)