Mickey Mouse a Copenhagen

Peppe Liberti | Il quark e il pinguino |

Ne deve aver avuto di pazienza, Niels Bohr, per sopportare tutte le prese in giro che nel corso della sua lunga carriera gli han riservato allievi e colleghi. Burle insistenti, caricature irriverenti, ma proposte senza mai trascendere: «le nostre risate su Bohr» ha raccontato Rudolf Peierls, fisico teorico che svolse un ruolo di primo piano nel Progetto Manhattan, «erano la via di fuga che ci permetteva di dire che, sebbene spesso non potessimo capirlo, lo ammiravamo quasi senza riserve e lo amavamo senza limiti». Lo aveva ammesso anche Harald, il fratello matematico, giocatore della nazionale di calcio danese e medaglia d’argento alle olimpiadi del 1908: «quando Niels mi parla, per i primi cinquantanove minuti io non capisco assolutamente nulla di quello che mi sta dicendo e dove vuole arrivare ma, al sessantesimo, una luce si accende improvvisamente e vedo che tutto quello che aveva detto in precedenza era assolutamente necessario». La verità è che Bohr, superati i quarant’anni, una volta messa a punto la sua ormai celebre versione della meccanica quantistica e dopo la fatica accumulata nei duelli con Einstein, aveva definitivamente perso la voglia di far di conto, preferendo esercitare la “professione” attraverso lunghi e tortuosi dialoghi con gli assistenti, quelli che poi avrebbero dovuto tradurre in formule i pensieri e le parole del vate. Dunque, in un certo senso, ben gli stava.

Il “padre dell’atomo”, d’altro canto, non era certo il prototipo del fisico stralunato che solitamente viene percepito da chi fisico non è. Era uomo di grande intelligenza, va da sé, e dal grande potere, un leader riconosciuto e in grado di “trovare i soldi”, in patria e oltreoceano, per finanziare tutto ciò che sarebbe potuto servire a condurre al meglio la sua ricerca. Nel suo Istituto di Copenaghen, sempre più ricco di strumentazione e personale, a partire dal 1921, anno della sua fondazione, si poteva assistere a un continuo migrare di personaggi di primissimo piano della fisica del tempo, incontrare per esempio Werner Heisenberg e Erwin Schrödinger o Lise Meitner, Paul Dirac e il povero Ehrenfest, che lo adorava. «Con Bohr è come con Rembrandt», aveva confessato quest’ultimo, «c’è un’intensa macchia di luce esaltata dall’oscurità che la circonda». Un ritratto che però Georgiy Antonovich Gamov, fisico e cosmologo originario di Odessa, non avrebbe mai dipinto. No, per lui Niels Bohr non poteva che essere Mickey Mouse.

Il talento principale di Georgiy Gamov (che diventerà George Gamow dopo il 1934, una volta conquistata la residenza negli Stati Uniti), oltre alla meteorologia, alla fisica, alla cosmologia, alla genetica (ma non subito), alla satira e a chissà cos’altro, era il disegno. Disegnava dappertutto, tra le formule e nelle lettere, ritratti di colleghi, vignette umoristiche e le illustrazioni che avrebbero corredato alcuni suoi celebri libri di divulgazione scientifica (ad esempio la serie che ha come protagonista Mr. Tompkins). Bohr nei panni del topo disneiano è un’opera che risale al febbraio del 1931, prodotta durante la sua seconda permanenza a Copenaghen, in occasione della terza edizione del convegno informale che il gran capo organizzava annualmente nel suo Istituto che proprio quell’anno festeggiava i primi dieci anni di vita. A questo punto però c’è una questione da affrontare: nel 1931, il topo saccente era davvero già così famoso da occupare i pensieri di un fisico teorico di origine Ucraina di stanza a Copenaghen? La risposta è sì e a trovarla ci aiuta Howard Greer, costumista e stilista statunitense, dal 1923 e per trent’anni di casa a Hollywood. Il titolo dell’articolo che pubblica su Photoplay nel novembre 1930 non lascia spazio a dubbi: Europe’s favorite, è il preferito dell’Europa.

In viaggio su una nave diretta in Europa Greer aveva infatti scoperto con raccapriccio che per gli europei la star più luminosa di Hollywood non era Greta Garbo ma Mickey Mouse, un tipo che lui sosteneva di non conoscere (mentendo sicuramente, malgrado il topo avesse solo un paio d’anni di vita). Una volta arrivato nel continente, aveva trovato le tracce del roditore dappertutto, in Inghilterra, Francia e Spagna. «Lo chiamano “Mickey”» aveva così riferito, «allo stesso modo in cui chiamano “Charlot” Charlie Chaplin». Orrore. Ma quello che non sapeva o che non ha scritto è che nel 1930 il topo era arrivato anche in Italia, già conosciuto col nome di Topolino e impresso sulle pagine del settimanale “Illustrazione del Popolo”. Non poteva inoltre sapere che, nello stesso anno, la Germania aveva bandito il cartone animato Barnyard Battle (Topolino contro i gatti) perché i gatti in guerra contro i topi indossavano abiti militari tedeschi. La censura avrebbe colpito anche in patria un anno dopo ma in quel caso la colpa sarebbe stata delle mammelle delle mucche, un po’ troppo grandi e allegre per non turbare gli ingessati bacchettoni delle commissioni di censura. Insomma, un tipo così, coinvolto in cose così, non poteva passare inosservato.

Le vignette di Gamow sono tredici – depositate nelle segrete stanze dell’Archivio Bohr e in parte pubblicate su un sito danese – e raccontano nei dettagli l’inestricabile intreccio (l’entanglement, come dicono quelli buoni) tra Bohr e la teoria quantistica a partire da un anno imprecisato in cui il fisico danese viene disegnato mentre tira un calcio a un pallone. A mio parere 1905 è la data giusta. Niels, al pari del fratello Harald, aveva praticato quello sport con passione e proprio quell’anno era stato portiere, non proprio eccelso pare, della squadra universitaria. Nella vignetta successiva, è già il 1913, il pallone diventa l’elettrone in orbita attorno a un nucleo e rivela la struttura alla base del famoso modello dell’atomo che prenderà il suo nome (di Bohr non di Topolino). La serie si chiude nel 1931 ma tra tutte le tavole ce n’è una che merita uno sguardo più attento. L’anno è il 1927 e Mickey Bohr (o Niels Mouse, fate voi) è un giocoliere che lancia per aria alcuni simboli matematici. Non ci vuole molto a capire (per un fisico) che quei geroglifici appartengono alle formule che sono alla base di un principio enunciato proprio quell’anno dal pinguino col cappello e dallo sguardo triste disegnato sullo sfondo. Sui pantaloni ha impresse le iniziali del suo nome, W.H., Werner Heisenberg. Heisenberg accidenti, nato lo stesso giorno, mese e anno di Walt Disney e che vincerà il Nobel nel 1932, lo stesso anno in cui in cui Disney vincerà il suo primo premio Oscar. Robe da matti.

Comunque, se si può ipotizzare che Bohr sia diventato Mickey perché tutti sapevano quanto fosse in buoni rapporti con i finanziatori americani (la famiglia Rockfeller in particolare), è più complicato capire perché Gamow abbia rappresentato Heisenberg come un pinguino. Forse una ragione non c’è ma l’ispirazione è sempre la stessa. Quando lo storico della scienza Charles Weiner nel 1968 gli chiederà: «Quando fai il tuo lavoro, scarabocchi o disegni?» Gamow risponderà: «No. No, beh, a meno che non debba disegnare le illustrazioni per … Ecco un bel furto da Walt Disney, ovviamente: un pinguino!» Non può che essere quello del 1931 ma da dove l’avrà preso?

Negli anni ‘20 e ‘30 del secolo passato e dopo il secondo conflitto mondiale, l’Istituto per la Fisica Teorica di Bohr ha prodotto grandi risultati scientifici e una quantità altrettanto importante di umorismo. Se ne è scritto parecchio e se ne scriverà ancora perché c’è ancora qualcosa da ricostruire. Magari un giorno qualcuno si ricorderà di un piccolo fumetto trascurato dalla Storia (ma che è storia della fisica),  lo tirerà fuori dagli archivi, toglierà via la polvere con un soffio leggero e potrà celebrarlo finalmente come merita.

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