Un campo di grano che dirti non so

Boris Battaglia | Bagatelle per un Alph-Art |

Per quanto ci si ritenga intelligenze libere, il nostro sguardo, a causa di anni di educastrazione nella scuola italiana, resta viziato da un radicato pregiudizio euclideo che ci fa ridurre il mondo a un piano cartesiano, e collocare di conseguenza il nord sempre in alto e il sud in basso, in quella che alle volte, se non tieni continuamente attivi i tuoi filtri ideologici, da comoda distribuzione spaziale rischia di diventare addirittura un’ingiustificata gerarchia etica.

Ecco, è per questo che, a guardarla sulla mappa, per un attimo può sembrarci che la Garonna scorra all’incontrario: dal basso della Francia sud-occidentale, attraversando Tolosa per raggiungere Bordeaux, poi la costa atlantica e gettarsi, contro ogni legge fisica, nell’oceano.

Ma non è così. Come ci hanno insegnato i geografi anarchici, tra tutti Elisée Reclus, la mappa non è il territorio e la Garonna segue correttamente il suo corso scendendo dalle altitudini dei Pirenei fino al livello del mare, in questo caso l’oceano Atlantico.

La guardo scorrere. Non sono Chatwin e mal sopporto i suoi libri; nessuna irrequietezza mi prende dopo un po’ che mi trovo in un luogo: se nessuno mi rompe le scatole posso rimanerci anche per sempre in un luogo come questo. Sulla rive-gauche della Garonna, ai tavolini di una bodega tolosana, cercando refrigerio in un bottiglia di jurançon. La bottiglia è agli sgoccioli e fa un caldo infernale oggi, in questo pomeriggio inoltrato di mezzo agosto del 1990. Bene. Non sono Chatwin, ma cosa ci faccio a Tolosa devo spiegartelo lo stesso, se no non ci schiodiamo da qui e, come ti ho detto, il vino è praticamente finito. Sto aspettando che una bellissima ragazza smonti dal lavoro per cenarci insieme.

Sono fermo da giorni qui a Tolosa perché mi sono innamorato. No, dai, non mi ingannavo nemmeno allora, non era amore e come attrazione fisica non sarebbe durata a lungo. Ma finché è durata sono rimasto lì. Ero in viaggio: sai ero uno studente privilegiato, non lavoravo e, siccome studiare riuscivo a farlo (con risultati mediocri, ma sufficienti) in ogni situazione (sui treni, sui barconi, negli ostelli), me ne stavo in giro con l’interrail e tornavo a Milano, nemmeno sempre, solo per gli esami. Dopo aver lasciato Montpellier avevo deciso di fiondarmi a Barcellona, avevo amici e storie d’anarchia da andare a trovare, facendo una piccola tappa a Tolosa. Sul treno verso Tolosa, trovo tutto accartocciato una copia di “France-Soire”. Sono un cazzo di snob progressista, quando sto in Francia leggo solo “Libé”, ma mi sto annoiando e comincio a sfogliarlo.

E la noia se ne va, rapida come mi aveva assalito. Chihuahua Pearl esce da una grotta, sotto un acquazzone, vestita solo con la camicia di Blueberry. È evidente che i due hanno fatto l’amore, e giuro, è una cosa che non mi aspettavo. Mi era sempre stato chiaro che, a differenza – per esempio di Tex – Mike Steve Blueberry avesse un’attiva vita sessuale (avevo tutti i 22 volumi della collana Eldorado della Nuova Frontiera), ma non mi sarei mai aspettato di vederla esplicitamente rappresentata in una sua avventura. Che cavolo era successo a Jean-Michel Charlier?

Lo scoprirò a breve. Semplicemente era morto, un anno prima, con poco meno di un terzo di sceneggiatura scritta. Jean Giraud, con grande fatica e mettendoci praticamente un anno, l’aveva finita da solo.

Neanche dovrei dirtelo che, appena arrivato a Tolosa, prima di cercarmi un alloggio, cerco una libreria di fumetti. La trovo in pieno centro storico, bellissima, come bellissima è la commessa alla quale mi rivolgo, brandendo la copia devastata del quotidiano e chiedendole dove trovo il volume di quella storia.

Il volume esce a ottobre. Poi, vedendo la mia incontenibile delusione, mi chiede: ma ti piace Moebius? Ecchennesò, io con Moebius ho avuto la stessa esperienza del mio socio di bagatelle, poi ho incontrato il suo doppio, Gir, sulle pagine di “Skorpio” e ho amato subito il suo Blueberry che mi ha dato un respiro che non ci riusciva più nemmeno “Mister No”. Merda, sono tre anni che mi mancava e, adesso che pensavo di averlo ritrovato, devo aspettare fino a ottobre!

La ragazza, forse sentendosi responsabile di quella mia assurda disperazione, mi guarda negli occhi e mi dice: «Aspetta, leggi questo!». Si allunga a prendere un album azzurro e, mentre me lo porge, sento già di essermene innamorato.

Il titolo mi piace. Le Garage Ermetique. E vista la convinzione con cui me lo ha consigliato, lo prendo e me ne vado in un bar lì vicino a leggermelo.

E CAZZO! CHE ROBA!

All’inizio non ci si capisce niente, e c’è un motivo preciso. Come raccontava lo stesso Moebius, in quel periodo lì, circa la metà degli anni Settanta, era spesso strafatto e sovraeccitato e soprattutto la notte, tra i fumi dell’acido, dava sfogo al proprio furore creativo realizzando tavole di personaggi che aveva usato altrove in modo canonico. Uno di questi era il Major Fatal, comparso sulle pagine proprio di “France-Soire” nel 1974. Di queste tavole, di quelle che non stracciava, si dimenticava già il mattino dopo. Un giorno Jean-Pierre Dionnet ravanando in un cassetto dello studio di Moebius, probabilmente in cerca di altro, trova alcune di quelle tavole dedicate al Maggiore. «No», gli dice, «tu sei pazzo! Queste tavole, ne fai una che apre la storia e una che la chiude e dà senso al tutto, e le pubblichiamo sul prossimo numero di “Metal Hurlant”». Moebius dice, «Certo, sì, lo faccio!». Ma poi si dimentica pure questa cosa, e quando Dionnet lo chiama che stanno andando in stampa e mancano le sue due tavole per chiudere il numero, le realizza al momento, durante due giorni di lavoro folle e ininterrotto, senza manco andare a ricontrollare cosa c’era nelle tavole che aveva dato a Dionnet. La storia comincia a dipanarsi nel terzo capitolo, ma appena sembra assumere un senso Moebius si impone di scardinarla nuovamente, rimandando al capitolo successivo i nodi che stavano giungendo a scioglimento. Eppure, in questo scardinamento, permesso dal fatto che Moebius lavora senza sceneggiatura, si compie la magia del fumetto: la storia, incomprensibile dal punto di vista della trama, mantiene capitolo dopo capitolo una coerenza assoluta – grazie al segno di Moebius – che ne rende indispensabile la lettura. Poi, nelle ultime 15 pagine, Moebius tira tutte le fila e chiude magistralmente il racconto, ma quello che conta è che grazie alla struttura che ha dato alle sue tavole, una volta che l’hai cominciata, arrivare in fondo a quella lettura è non solo un piacere, ma un preciso bisogno.

Chiudo il libro è mi rendo conto che la mia idea di che cos’è una storia adesso è radicalmente cambiata. D’altra parte Moebius l’aveva dichiarato, in quel famoso editoriale programmatico sul numero 4 di “Metal Hurlant” (ottobre-dicembre 1975).

Lo so, te ne riportano sempre solo le ultime righe, spesso anche un po’ travisate. Te lo traduco tutto, dai.

«Tocca spiegarvi perché faccio fumetti senza sceneggiatura… Tocca raccontarvi nel dettaglio le angosce della creazione… Tocca dirvi una cosa personale, anzi peggio, farvi una confessione… Direi che è evidente… A monopolizzare il racconto ci sono questi qua, che fanno storie sempre uguali, con gli stessi elementi: il climax, l’avventura, il messaggio, la morale, le gag.

Il climax: è facile, basta contraddire con un’immagine tutto quello che la precede… il problema nasce dalla qualità della contraddizione… più la situazione di partenza è potente più la piroetta finale deve essere spettacolare… è un procedimento tanto artificioso quanto evidente…
L’avventura: dare a un tipo o a un gruppo dei poteri e poi piazzarli davanti a un altro tipo, a un altro gruppo o a degli elementi naturali con dei poteri apparentemente superiori… la furbata è far vincere quelli più deboli. In questa scelta astuta sta il messaggio politico ed etico dell’autore…
Il messaggio: c’è sempre un messaggio, ma l’autore pensa che la qualità del suo messaggio debba assumere valore di struttura portante della storia. Questo vale soprattutto per le minoranze culturali…
La morale: qui ritroviamo la stessa struttura della storia a climax, ma con minore contraddizione e con un percorso più lineare…
le gag: ogni storia contiene i quattro elementi precedenti con dosaggi diversi…

Ma se il messaggio politico è sempre implicito, perché evidenziarlo? Perché attendere la fine della storia per contraddirsi? Perché fare vincere il più debole? Perché avere paura di ritrovarsi soli nel buio e gridare aiuto? Perché tutta quest’ansia di avere ragione?
In fondo non c’è alcun motivo perché una storia debba essere come una casa con una porta per entrare, delle finestre da cui guardare gli alberi e un camino per fare uscire il fumo… Possiamo benissimo immaginarci una storia in forma di elefante, di campo di grano, o di tremolante fiamma di fiammifero.»

Ancora oggi non so se avesse ragione o meno, ma quel pomeriggio a Tolosa so che fece crollare tutte le mie precedenti convinzioni su come funzionano le storie. Poi vabbè, mi ha fatto anche passare giornate incredibili. Perché sono tornato in quella libreria per ringraziare la commessa, ed è andata come è andata. Magia dei fumetti.

Ti è piaciuto? Condividi questo articolo con qualcun* a cui vuoi bene:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

(Quasi)