Quelli di Anarres

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Nel 1974 Ursula Le Guin riesce a sciogliere un nodo che le impedisce di liberare una storia che le monta dentro da qualche anno. Sta cercando di capire le ragioni della sua protesta contro la guerra statunitense in Vietnam. Una guerra apparentemente senza fine, condotta nel sudest asiatico, cui si contrappone un’altrettanto infinita protesta, ma da casa. La scrittrice per mettere a fuoco questa contraddizione apparente, affianca alla lettura di Gandhi i testi degli anarchici Pyotr Kropotkin e Paul Goodman e ne ha un’illuminazione. Il ruolo intellettuale che le conferisce il suo essere una scrittrice di fantascienza l’autorizza a disegnare un luogo, lontano da casa, in cui condurre una protesta più incisiva e proficua e, inoltre, se già Charles Fourier nel suo Nouveau monde industriel et sociétaire (1822) aveva teorizzato e descritto l’utopia di una società anarchica, nessuno ne aveva mai raccontato le possibili contraddizioni.

Due mondi che godono della stessa luce ma sono separati da un muro: Il primo è Urras, ricco e ospitale per la civiltà, ha sviluppato un modello economico capitalista, aggressivo e gerarchico, che favorisce la repressione politica, sociale e sessuale; l’altro è Anarres, impervio e inospitale, è abitato da un popolo che pone i bisogni della società al di sopra dei desideri personali. La contrapposizione tra i due mondi non lascia dubbi sul modello più giusto.

Quando il romanzo esce, ha un titolo bellissimo: The Dispossessed: An Ambiguous Utopia. Il libro viene tradotto in italiano nel 1976 e, appena un anno dopo, quel sottotitolo potente diventa l’egida sotto cui muovere un’idea radicale di fantascienza.

La rivista “Robot”, diretta da Vittorio Curtoni, ha appena evidenziato come la fantascienza sia, in quegli anni, un territorio letterario frequentato con una disinvoltura quasi egemonica da gruppi di estrema destra. Bisogna liberarlo. Bisogna evidenziare che i mondi della fantascienza sono almeno due e porre luce sul muro che li separa.

“Un’ambigua utopia” è il nome del collettivo nato all’interno del Movimento del ’77, e vissuto fino al 1982, che ha dato vita alla rivista omonima.

Poco prima di morire, Antonio Caronia, che di quel collettivo ha fatto parte attivamente fina dal 1978, ha donato alla Cascina Autogestita Torchiera di Milano l’archivio dei numeri originali della rivista e numerosi appunti e racconti inediti. Quei materiali sono consultabili negli spazi di “Bibliotork Interzona Caronia” e già questa è una buona notizia. Ma ce n’è un’altra che a noi pare anche migliore.

Fino a qualche tempo fa, il modo più semplice per scoprire cosa sia significata l’avventura di “Un’Ambigua Utopia” era procurarsi i due volumi, editi da Mimesis, che raccolgono i nove numeri della rivista. Ora quelle pagine possono essere scaricate da questo sito.

E non è finita.

A trentotto anni dal precedente, in questo 2020 è uscito un nuovo numero, il decimo, di “Un’Ambigua Utopia”. Scovarlo è addirittura più difficile che procurarsi il primo numero di “QUASI”, ma – te lo garantiamo – esiste. Inoltre, attorno a questa nuova uscita si è sviluppato “Un Ambiguo Podcast”: «Ogni lunedì online una nuova puntata online…finché ce n’è.». QUI.

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