Robot irrequieti, la luna è tramontata.

Arabella Strange | Rorschach |

«Δέδυκε μὲν ἀ σελάννα
καὶ Πληΐαδες· μέσαι δὲ
νύκτες, παρὰ δ’ ἔρχετ’ ὤρα·
ἔγω δὲ μόνα κατεύδω.»

«È tramontata la luna / con le Pleiadi, la notte / è al mezzo, il tempo passa / io dormo sola.»

Così Saffo ci racconta la risposta definitiva, quella priva di domanda. Quella che segue o precede qualunque tipo possibile di domanda: Io dormo sola.

Stasera il tempo si è rasserenato e in cielo trionfa una luna tonda come una moneta, bianca e luminosa come i denti di uno squalo, ma prima ha piovuto a lungo e a scrosci, quasi un fortunale, e io ho pensato – come tante volte mi capita – che la pioggia ripulisce il cielo, lucida le foglie e fa lo stesso con il mio cervello. Schiarisce i pensieri e poi, strano, mi induce a cercare rifugio nel sonno, come se una volta schiarita la mente non restasse altro che chiedere al subconscio di mettersi al lavoro, per governare quel che germoglierà.
È quello che mi ha detto tempo fa un amico, suggerendomi di dormire per metabolizzare una brutta notizia: «Lascia che il subconscio faccia il suo sporco lavoro». Ho fatto tesoro di questo consiglio, ci sono lavori sporchi che qualcuno deve pur fare, e l’inconscio, personaggio misterioso in abiti scuri e mimetici, sembra la figura professionale più adatta. E spesso mi sveglio davvero con un’idea nuova, con una risposta a problemi che la sera  mi erano sembrati insormontabili, spaventosi.
La poesia di Saffo è breve e precisa come un haiku, con tanto di kigo, il riferimento a un ordine naturale di cose che eternamente si ripetono: gli astronomi ci dicono che è stata scritta tra la fine di gennaio e marzo. Ma perché Saffo dorme sola? Chi manca in quel letto? È un lamento, una constatazione?

Io dormo sola.

Penso che a volte certe domande arrivino prima delle risposte, solo che non ce ne rendiamo conto fino a quando ci torna in mente un episodio e di colpo l’inspiegabile diventa chiarissimo. L’uovo della risposta stava annidato nella paglia molto prima che arrivasse la gallina del dubbio.
C’è un racconto di fantasmi scritto da Edith Warthon nel 1910, Afterward, Dopo. L’ho letto in una strana ed eterogenea raccolta intitolata Il trionfo della notte, un tascabile comprato per caso tanti anni fa che mi ha fatto scoprire alcune delle mie storie di fantasmi preferite. Mentre scrivo è scomparso: è in casa ma ricomparirà solo quando non mi servirà più. Il racconto di Warthon ci presenta uno specialissimo fantasma che infesta la casa della protagonista, e di questo fantasma si sa solo che lo si riconoscerà dopo averlo visto. Non prima, non durante: solo dopo.

«Oh, there is one, of course, but you’ll never know it.» Nella casa c’è un fantasma, ovviamente – com’è inglese il dialogo!– ma tu non lo riconoscerai.

Però deve esserci, il fantasma, provvidenziale sostituto dei fantasmi della coscienza in un racconto che parla di truffa, inganno, avidità, ma anche di complicità innocente e cecità delle donne del tempo di Edith, come di quelle dei Sopranos, nei confronti degli intrighi degli uomini. La lussuosa dimora nell’idillio della campagna inglese non può che essere infestata. Non esserlo diminuirebbe il valore dell’immobile, potremmo dire.

«”Allora, a Lyng c’è un fantasma o no?”
Quest’uscita di Edward aveva fatto ridere Alida un’altra volta, ed era stato a questo punto che aveva replicato, stuzzicandoli un po’: “Oh, certo che ce n’è uno, ma non lo riconoscerete mai”.
“Non lo riconosceremo mai?”, le aveva rifatto il verso Boyne. “Ma in che cosa diavolo consiste un fantasma, se non nel fatto di essere riconosciuto come tale?”
“Non lo so, ma la storia dice così”.
“E la storia dice che c’è un fantasma, ma che nessuno sa che è fantasma?”
“Be’, non fino a dopo, in ogni caso”.
“Fino a dopo?”
“Molto, molto dopo.”»

La parola chiave, il titolo del racconto, è dopo. Alle domande caute della moglie che lo vede assente, Ned Boyne risponde accennando a un impiccio in tribunale, una roba tecnica e complicata, semplicemente non voleva annoiarla. Una storia di capitalismo come tante: una miniera, un fallimento, un uomo che si toglie la vita mentre un altro ne esce indenne e arricchito. Ma alla fine i conti torneranno e sarà Mary Boyne ad abbandonare ignara il marito al suicida che viene a incontrarlo per portarlo con sé nel Chissadove, con una vendetta cortese, da gentiluomo, senza stridor di denti o fracasso di catene. Il visitatore cerca il marito e Mary lo indirizza verso il suo studio. Più educati di così…

Mesi dopo la scomparsa misteriosa di Ned, Mary ricorderà, cristalline, le parole della cognata Alida: il fantasma c’è, ma lo riconoscerai solo dopo. Le domande di Mary e la risposta del fantasma sono capovolte nel tempo, in un raggiro di Edith Warthon che attacca la mentalità del suo tempo, la cupidigia, il denaro che vale più della vita di un essere umano, perché sono affari, cose da uomini. Sono le donne a restare, a ricostruire la linea temporale. Ad aprire gli occhi.

A volte ci sono fantasmi di risposte che galleggiano come nuvole nella nostra mente, a volte, quando incappiamo in situazioni problematiche che riguardano la vita, l’universo e tutto quanto, oppure un problema pratico, o il comportamento di qualcuno. Tornano a galla dei ricordi e tutto diventa chiaro e limpido. L’esempio che mi viene più spontaneo è quello del tradimento, cosiddetto, della relazione monogamica: metti insieme alcuni elementi e dici: «Ma certo, lo sapevo!» È curioso il senso di microscopico trionfo che accompagna lo sgomento della realizzazione: tu già lo sapevi perché dentro di te c’è un computer gigantesco che elabora i problemi e fornisce delle risposte. Che non servono a niente. Sono le domande che tornano utili.

Ho sempre amato molto l’affermazione di Arnold E. Sevareid, il “Murrow’s Boy” della CBS che ha raccontato in diretta agli Americani la caduta di Parigi nelle mani dei nazisti nel 1940: «The chief cause of problems is solutions»: «La causa principale dei problemi sono le soluzioni». Tutti i problemi erano le soluzioni di qualcuno, quindi ogni domanda è stata una risposta. E pensando a domande e risposte, non posso che tornare al racconto originario, quello che mi ha fatto capire la non linearità, l’inutilità addirittura del formato “domanda/risposta”. Quando ero molto piccola, grazie a mia madre, ho scoperto la fantascienza. Pacchi di “Urania” e tascabili Bompiani, accumulati disordinatamente sugli scaffali della libreria, mi sono stati offerti come un pascolo infinito in cui scorrazzare quando avevo dieci anni, e la mia voracità di lettrice non aveva biblioteche pubbliche in cui sfogarsi. Il tacito accordo era che potevo leggere qualunque libro ci fosse in casa. È così che mio padre mi ha trovato con in mano L’amante di Lady Chatterley, libro a quei tempi molto scandaloso, quando avevo tredici anni, e un po’ turbato mi ha chiesto come mai lo stessi leggendo, e io l’ho liquidato dicendo: «Ma sì, l’ho già letto due anni fa».

Mi aveva fornito un minimo di istruzioni su come sono fatti i maschi e le femmine, perlomeno. Istruzione che non avrei utilizzato per molti anni ancora e di cui poi avrei fatto un uso sciatto per un sacco di tempo, purtroppo. Se i corpi degli uomini e delle donne sono diversi ed enigmatici, e pur essendo costruiti per incastrarsi alla perfezione non cessano di essere misteriosi, le loro menti sono ancora più incomprensibili.

E tra gli “Urania” e i Bompiani c’era anche la raccolta di Isaac Asimov Io, robot, e nella raccolta ho letto quello  che sarebbe diventato il mio racconto preferito sulle intelligenze artificiali: Liar, Bugiardo. C’è un personaggio che attraversa, a volte in modo molto visibile, a volte meno, l’intera raccolta. È la dottoressa Susan Calvin. Rileggendo l’antologia anni più tardi mi è sembrata la reale protagonista del libro: un personaggio complesso perché, apparentemente dedito solo alla robopsicologia, cova sentimenti e passioni che nessuno dei suoi colleghi, tutti rigorosamente maschi – sono gli anni ’50 – intuisce. Non che a loro importi, del resto. La sua appartenenza alla cerchia ristretta dei decisori è forse proprio condizionata dal suo essere donna scialba e poco attraente, non sposata all’età di 38 anni: insomma, una zitella a quel tempo. Anche l’androide RB-34, detto Herbie, è un errore di fabbricazione, perché è in grado di leggere nella mente degli esseri umani. Naturalmente deve anche obbedire alle Tre Leggi della Robotica, l’eredità di Asimov, l’imprescindibile codice morale di qualunque intelligenza artificiale; un regolamento che, come spiegherà lo stesso Asimov nei racconti successivi, nel futuro non potrà che ritorcersi contro se stesso.

Perché l’etica non è così semplice: chi salveresti tra un bambino e due vecchi? E tra due bambini? Ma diciamo che per le funzionalità di base le Tre Leggi sono perfette.
La prima recita: «Un robot non può recare danno a un essere umano, né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno».
Molte domande agitano le menti del direttivo della U.S. Robots & Mechanical Men Corp., ambizione, interesse per la soluzione del problema matematico alla base della telepatia di RB-34, ma come sempre il cervello più interessante è quello della dottoressa Susan Calvin, innamorata di Milton Ashe, un collega un po’ più giovane, un po’ più bello, un po’ più stupido. RB-34, Herbie, la incoraggia in questa infatuazione affermando che l’amore di Susan è ricambiato. E lei per un po’ ci crede, si trucca (malamente, ci dice impietoso Asimov), sembra felice. Amara sarà l’intuizione finale di Susan: l’androide non ha fatto altro che obbedire alla Prima Legge, dando a ciascuno la risposta che desiderava ricevere, non importa se falsa o in conflitto con le risposte date ad altri. E Susan allora lo metterà all’angolo, dicendogli che deve risolvere l’equazione matematica che il collega non riesce a risolvere, perché lui vuole la risposta, e senza la risposta soffrirà. Ma Herbie, quella risposta, non può darla perché il collega vuole trovare la soluzione da solo e, vedendosi superato da un robot, soffrirà. Ma deve dargliela, quella risposta, perché se no soffrirà. E così via, fino a che Herbie impazzisce. Portandosi via, per sempre, il segreto dell’errore che l’ha reso telepatico.
Susan usa spietatamente la Prima Legge, creando un conflitto irrisolvibile, una dissociazione disperata, una dissonanza cognitiva che si esprime con lo «stridere di un ottavino amplificato molte volte… acuto, sempre più acuto» che diventa «un lamento funebre, carico del terrore di un’anima perduta». Poi, silenzio. Fredda come di consueto la dottoressa discute con i colleghi delle implicazioni di quanto avvenuto e delle modifiche che andranno operate sui cervelli di queste creature artificiali. Poi, rimasta sola con l’androide ormai reso pazzo e catatonico, gli sibilerà: «Bugiardo!».

Il cuore umano è una sorgente inesauribile di domande. La passione per la scoperta di cose nuove, che un mio caro amico chiama epistemofilia, è una delle caratteristiche più belle degli esseri umani. Anche se poi costruiamo ordigni nucleari e mine antiuomo. Nella sua forma più pura, quella che vediamo nei bambini nella fase del «perché, perché, perché», è meravigliosa da contemplare.
Soprattutto quando puoi essere sincero e cercare di dare risposte vere, adattando il linguaggio alla loro comprensione. Tanto, molti anni più tardi sarà chiaro anche a loro che, come ci ha spiegato Douglas Adams nel primo romanzo della saga degli autostoppisti galattici, la risposta non può essere che 42.

Mi è molto dispiaciuto quando Adams ha voluto spiegare a cosa corrispondesse quel 42. Per me era la risposta perfetta, come Diamante, o Stivali, o Precipitevolissimevolmente, perché alle domande vere non c’è risposta vera, sul lungo periodo. Risposte provvisorie, al massimo.

Forse Saffo dorme sola perché è triste dormire soli ma è anche reale, in qualche modo soddisfacente, sotto la luna che tramonta insieme al piccolo gregge delle Pleiadi. Non c’è più nessuno a cui dire: Bugiardo! Prendi atto della tua solitudine, la vivi fino in fondo, sai che come tutte le risposte non è definitiva e ti addormenti.

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