Seguendo piccole tracce di bianco e di nero

Boris Battaglia | Una pietra sopra |

Considerazioni su Edmond Baudoin accompagnate da una bottiglia di ottimo Bordeaux del 1995 (annata niente male per i vini). Pubblicate su “Schizzo”, da qualche parte nella seconda metà degli anni Novanta dello scorso secolo.

Il vino rosso macchia. È un dato di fatto.
Non c’è tovaglia, tra le poche che possiedo, che non rechi i segni indelebili di una serata allungatasi un po’  troppo, con i pochi amici, a parlare di libri e di donne. A farli anche, a volte, i libri, e a conoscerle, a volte, le donne. Sia chiaro, poi, che i libri di cui si parla sono quasi sempre a fumetti.
Anche i fumetti macchiano. L’intelligenza non le tovaglie, però. Nella mia libreria una delle macchie indelebili si chiama Edmond Baudoin.
Divertente e generoso, Baudoin è sicuramente l’autore di fumetti più prolifico e originale di Francia. Così si racconta lui stesso. «Nascita: 1942 a Nizza. Prima le scuole (svogliatamente) e un lavoro di merda. Poi il disegno, gli amori, i figli e i libri di fumetti. Tanti. Anche libri illustrati, dipinti, e la danza; di nuovo amori e figli. Ancora libri» (su “Libération” nel gennaio 1997, non ricordo né il giorno né il numero. Traduzione mia, quindi perdonami). Prima per Futuropolis poi per l’Association. Fu proprio Futuropolis, piccola e raffinata casa editrice, a fare di Edmond Baudoin un autore di fumetti. Etienne Robial, mente e anima della casa editrice, pur trovando Baudoin «un po’ troppo poeta e troppo poco fumettaro», ma sapendo, a differenza di tanti nostri editorucoli, leggere e capire la bellezza, gli pubblicò ben quindici libri. Strappandolo a una già lunga, ma naturalmente poco amata, carriera di ragioniere.

Dopo.
Così: dopo, è cominciata la vita a fumetti di Edmond Baudoin (anche perché gli episodi più belli della sua bibliografia sono quelli autobiografici). Nel 1981, dopo più di vent’anni passati a fare il contabile, con qualche fuga nell’illustrazione. Un libro brutto: Sentiers cimentès. (Futuropolis). La raccolta cioè di storielle varie tra la fantascienza e il fantastico pubblicate su “Le Canard Sauvage”, che troppo ricordavano nel testo e nel disegno Guido Crepax. Niente da questo libro poteva far presagire quello che ci aspettava esattamente dieci anni dopo.
Bisogna ammetterlo, deboli segnali già li avremmo avuti negli anni successivi; non so, penso a  libri come Passe le temps, La peau du Lézard, Un flip Coca, Le Portrait (sempre, tutti, per Futuropolis), nei quali già si trovavano tutti i temi autobiografici cari a Baudoin.
Ma fu comunque una deflagrazione che ci devastò l’organo motore del sentimento. Una pirotecnia. Una rivelazione. Come stappare una bottiglia di barolo del 1990. Vino indimenticabile. Libro indimenticabile. Stessa annata. Perché è vero che il libro uscì nel 1991, ma in bottiglia (mi si passi la metafora) Baudoin ce l’avrà messo almeno l’anno prima.

Un titolo oscuro, bellissimo: Couma Aço. Un fumetto di chiara bellezza. A cui gli organizzatori del festival di Angoulême, nonostante la stolidità che caratterizza gli animatori di festival (quelli nostrani in particolare) non poterono fare a meno di dare il loro premio più prestigioso.
A parte queste mondanità da niente,  Couma Aço resta un libro fondamentale.
Non accade nulla, in questo libro, niente intrighi, quasi nemmeno una storia; solo la commossa memoria di un nonno meraviglioso, quello di Baudoin; evocata e ricordata dalla veridica poesia di un pennello vaporoso. Un libro che non serve ad altro che ha trovare la forza di continuare ad affrontare la vita (e dici niente!). È il titolo in fondo, che suona più o meno Comme ça. Così. Come la vita.

Chi sa quando un libro comincia? Dove? Nella testa dell’autore scassata da una forte allergia primaverile sotto il cielo di Beirut scassato dalle bombe, dove qualcuno che disegna seduto sul marciapiedi è più innaturale di un ragazzetto di tredici anni che imbraccia un mitra; oppure in un uno studio nell’unica città che probabilmente non si vergogna di stare in cartolina, Nizza, dove Baudoin è solo nato, come altri nascono a Praga, Manila, Tananarive, Milano?
Volere sapere quando un libro comincia è impresa titanica. Forse un libro comincia ogni volta che qualcuno cerca di disegnare un‘onda.
Impossibile.
«Immobilizzare il tempo,… sono un idiota» (p.22, ed. l’Association). Eppure è proprio sfinendosi in questo tentativo che Baudoin realizza il suo capolavoro. Eloge de la poussière.

Era il 1995. Annata appunto gloriosa per il barolo, e per i vini in generale. E Baudoin tentava, giocando tutto se stesso, una sfida impossibile: immobilizzare il tempo, raccontando la sua vita con i fumetti. Una confessione sentimentale che non conosce eguali. Ne usciva sconfitto. Ma ci dava in mano un capolavoro assoluto, irraggiungibile. L’elogio della polvere, ovvero del tempo che, passato, è perduto; e che solo un altro grande narratore ha trovato nel ventesimo secolo, anche lui francese (un destino?). Il  Proust ricercatore.
La memoria è il perno di questo libro. La memoria sconfitta; che non sa e non può, con il pennello (o con altro mezzo), raccontare se stessa, se non attraverso la polvere che copre i vecchi oggetti appartenuti, in qualche modo, alla nostra vita. Raccontare la polvere, cioè i nostri ricordi, è in fondo fare la cronaca commossa dell’impossibilità di imprigionare la vita nella memoria.
La madre (guarda le ultime struggenti pagine) ritratta dall’autore non è riconosciuta, nel disegno, dall’infermiera della casa di cura dove è ricoverata. Anzi. Meglio. L’infermiera dice che quello è un bel disegno, ma non è Jeanne (la madre di Baudoin).
Jeanne è Jeanne. Nessun disegno, nessun racconto potrà mai sostituirsi a lei. Potrà mai renderne l’essenza, l’intelligenza dello sguardo. Non si può pareggiare la vita solo con la sua sterile cronaca.
E Baudoin accetta felice questa sconfitta. Finalmente lo sa.
Lo sa che non si può disegnare un’onda. Che non si può fare prigioniera la vita. Che raccontarla è sempre, e comunque, una debacle.
A questo punto smette di ricordare. Attraversa, con sguardo commosso, le aree dismesse (altro bellissimo libro che nessun editore italiano ti farà leggere: Terrains vagues – L’Association, 1996) dell’autobiografia, e comincia a raccontare. Adesso sa come controllare i sentimenti e può cominciare il VIAGGIO.

Controllare, poi, un bel niente. Perché Le voyage comincia con un esplosione. Dei sentimenti. L’oscena e insopportabile disvelazione della mostruosità del quotidiano, con relativa epifania salvifica: rito apotropaico che immobilizza il mostro e indica la strada. Simon ha la testa aperta (scassata?) sul mondo. Ed è un vecchio ubriacone a soffiargli, insieme agli aliti di un vino scadente, la formula segreta per cominciare il viaggio.

Pianterà tutto Simon, moglie, lavoro e figlio, e solo il figlio ritroverà alla fine del viaggio (e alla fine del libro, va da sé), rinnovato e finalmente degno di lui. Come solo un padre che finalmente conosce il valore e il senso della libertà può essere degno di un figlio. Ritornato, dopo aver conosciuto il lavoro per passione del marionettista Oliver e l’amore senza catene (sentimentali) della bella Léa, Simon è finalmente re, della sua vita, e il piccolo Pierre, suo figlio ne sarà il degno erede, tanto che il vecchio ubriacone (quello degli inizi, sì) lo chiamerà “piccolo principe” (e che questo libro di Baudoin sia in fondo anche e soprattutto uno splendido omaggio a quello di Saint-Exupery mi sembra così evidente…).

In tutta la sua opera Baudoin non vuole convincerci di niente. Solo ci conduce lungo le piccole tracce di bianco e di nero che il suo pennello traccia, con la leggerezza e l’ampiezza di un volo di gabbiano, lungo la strada che porta alla bellezza. La bellezza del corpo. Quello femminile in particolare.
C’è nel Voyage una delle scene d’amore più belle di tutta la storia dei fumetti. Tra Léa e Simon, in cui Baudoin raggiunge (a mio avviso) la sua vetta più alta; in cui porta a sintesi la lezione dei suoi due più grandi mastri: Picasso e (soprattutto) Matisse.
Vediamo se riesco a spiegarti cosa intendo. I secoli di retaggio culturale che ci portiamo alle spalle, e cioè certo classicismo d’accatto che ingabbia la sensualità nel rigore geometrico e il cieco cattolicesimo che spegne il corpo nella supposta superiorità dello spirito, non ci permettono (alle volte nonostante noi stessi) di guardare al corpo rappresentato come a una forma vivente, ma come a una forma plastica (leggi a questo proposito un assoluto – non sempre condivisibile – capolavoro di teoria interpretativa come Il nudo di Kenneth Clark, Neri Pozza, 1995).
Il classicismo mitigava fin quasi a spegnere la sensualità del corpo nel rigore e nella perfezione geometrica. Matisse e Picasso (un po’ anche Cézanne prima e Brancusi dopo) portarono l’astrazione dell’elemento geometrico al parossismo, sottolineando alle volte anche ferocemente l’animalità dei corpi. Liberandone tutta la sensualità.

La mancanza di pudore diviene totale. La contemplazione del corpo rappresentato non provoca più solo un aristotelico piacere, ma vero e proprio eccitamento.
Baudoin fa sua questa mancanza di pudore, quest’ardore nella rappresentazione dei corpi (lo ribadisco: di quello femminile in particolare. Per capire cosa intendo per assenza di pudore guarda i disegni realizzati da Baudoin per i libri di Carol Vanni Embruns e Chagrin D’encre). Portandola a compimento in quella scena d’amore tra Léa e Simon vi aggiunge però qualcosa. Ricostruisce ciò che Picasso aveva smontato.
I corpi disegnati mantengono tutta la loro esasperata eccitante astrazione, stagliandosi a contrasto contro l’esasperato formalismo geometrico delle tavole e della sequenza. Il fumetto di Baudoin diviene così, per usare parole di Mario Luzi a proposito di Matisse, “puro e totale esprimersi della vita” . Niente di meno.

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