Quando lo spazio (bianco) si anima

Omar Martini | Ricreazione |

A metà degli anni Settanta del secolo scorso mi regalarono per Natale uno dei primi modelli di console per videogiochi arrivati in Italia. Era un oggetto rudimentale se lo confrontiamo con gli standard attuali e non avrebbe di certo sfigurato in un film di fantascienza sovietica degli anni Sessanta. Ci potevi giocare a pelota, squash, calcio e tennis e capivi cosa stavi facendo dal fatto che avevi una, due, tre o quattro barrette a disposizione su cui far sbattere quadratini luminosi che rappresentavano la palla. La passione per quell’arcaico soprammobile durò qualche giorno.
Maggiore fortuna ebbe, una decina di anni dopo, il Commodore 64. Oltre a sostituire la macchina da scrivere meccanica grazie alla quale avevo sviluppato una possente muscolatura interamente localizzata sulle dita, mi aiutò a sprofondare nella passione per i videogiochi e a sviluppare le due caratteristiche che mi avrebbero accompagnato a ogni acquisto di dispositivi tecnologici (il Mac Classic, il PC con cui quasi mi rovinai economicamente, la PlayStation acquistata “scontata” in un supermercato): la tendenza alla dipendenza e un’assoluta mancanza di costanza nella conclusione dei giochi.
Recentemente ho anche cercato di capire meglio questa mia tendenza leggendo un testo piuttosto interessante (Lost in a good game: Why We Play Video Games And What They Can Do For Us di Pete Etchells), ma non mi ha aiutato molto perché, come quelle persone che cercano di superare i propri problemi leggendo qualche manuale sulla Mindfulness, non ho trovato la risposta provvidenziale a tutte le mie domande. In compenso, è stato utile per capire la logica alla base dei meccanismi dei giochi per cellulare e mi ha rivelato i forti rischi di inattendibilità dietro la pubblicazione di certi studi universitari specialistici.

A causa di cambiamenti, anche radicali, e coincidenze, da qualche anno mi sono di nuovo esposto all’influenza dei videogiochi. Come in tutte le espressioni dei miei acquisti compulsivi (di cui certamente il fumetto è quella più importante), ho diversi giochi ma ne ho iniziati (e finiti) solo una minima parte. Mi sono rassegnato a non frequentare sparatutto, gli open worlds che richiedono un eccessivo investimento di tempo o quei giochi in cui è altamente consigliata una certa esperienza nell’uso del controller, pena la frustrazione di passare 1-2 ore nel cercare di superare situazioni che un videogiocatore mediamente esperto risolverebbe in cinque minuti. Ho sviluppato quindi un interesse per giochi dove la storia è un elemento importante e per i “puzzle game”. Esplorando quest’ultimo genere, mi sono quindi casualmente imbattuto in un gioco di qualche anno fa, che mi ha colpito per il modo in cui avvicina, infrange e mescola i confini distanti tra videogioco e fumetto.

Framed mischia generi e forme fin dal titolo. “Framed” significa “incastrato”, come nella classica situazione in cui si trova il protagonista di ogni storia noir che si rispetti, ma anche “incorniciato”. Il sostantivo “frame”, “cornice” oppure “struttura”, si può riferire alla forma della tavola a fumetti, nel suo elemento primario (la vignetta) e nella sua unità di misura (la pagina strutturata e composta dalle vignette). E proprio la pagina del fumetto è la forma estetica, grafica e narrativa su cui questo gioco si fonda e in cui si immerge profondamente per perseguire il suo scopo: la risoluzione dei vari enigmi grafici di cui è composto. Fondamentalmente, ci troviamo di fronte a un lungo inseguimento, che potrebbe anche continuare all’infinito, in cui un uomo e una donna (a cui si aggiungerà, successivamente un terzo personaggio) si alternano per cercare di mantenere il possesso di una misteriosa valigetta, inseguiti, a varie riprese, da agenti di polizia e da uno sceriffo corrotto.
Composto al momento di due capitoli, uniti successivamente in una “Collection”, Framed, con la sequenza serrata di fughe, sparatorie e inseguimenti, trae ispirazione dal noir cinematografico, dalla decostruzione del tempo operata da Quentin Tarantno in Pulp Fiction al mistero della valigia luminosa di Kiss Me Deadly / Un bacio e una pistola di Robert Aldrich. I personaggi stessi richiamano non solo archetipi del genere, ma anche attori ben precisi (nel secondo capitolo il nuovo personaggio fa venire in mente Samuel Jackson in Pulp Fiction); Inoltre il loro aspetto dalla grafica estremamente stilizzata – silhouette nere, con alcuni elementi bianchi per aggiungere caratterizzazione e tridimensionalità – richiama certe soluzioni estreme usate da Frank Miller nella serie Sin City. Quest’ultima citazione non è, ovviamente, l’unico riferimento al fumetto.

Essendo nato originariamente come gioco per cellulare e solo successivamente adattato per PC, il senso di lettura e, tendenzialmente, di gioco è orizzontale. Quello che devono fare i personaggi è passare da una vignetta all’altra, spesso disposte su due o più “piani” (le strisce) per sfuggire all’avversario. Vengono sfruttate le caratteristiche intrinseche del fumetto per quello che riguardo la direzione di lettura e di spostamento degli elementi e dei personaggi non solo all’interno della vignetta stessa ma anche della tavola. Giocando, nel vero senso della parola, sulla possibilità di poter modificare tutto “semplicemente” cambiando l’ordine di due vignette: se prima il ladro con la valigia esce da una porta e finisce direttamente tra le braccia di un poliziotto, anticipando la vignetta seguente il ladro ora esce da una porta alle spalle di un altro poliziotto, entra nella vignetta “precedente” (che adesso è diventata successiva) da un punto diverso e riesce a fuggire.
Questo è il “gioco” fumettistico che si dispiega davanti ai nostri occhi, con variazioni che diventano più complesse man mano che si procede. Lo spostamento non è la sola operazione consentita sulle vignette durante il gioco: è possibile anche ruotarle di 90 o 180 gradi (in modo da far spostare in modo diverso i personaggi), di riposizionare più volte la stessa vignetta in momenti o punti diversi, giocando in questo caso con la ripetizione e il tempo, e così via. Si opera con le direzioni, quindi con il senso di “lettura”, e con quello che accade negli spazi bianchi tra le vignette (effettuando queste modifiche e spostamenti, i personaggi compiono azioni o prendono strade diverse anche in quello spazio bianco (a noi invisibile) presente tra un riquadro e l’altro.
La struttura visiva fa riferimento a una tavola orizzontale, o ancora di più a una striscia: superare un livello significa riuscire ad arrivare alla fine di una tavola (o striscia), per poi continuare nella tavola successiva, in modo infinito e senza una possibile conclusione all’orizzonte, come se ci trovassimo di fronte ai continui cliffhanger di una striscia senza fine. A rafforzare questa sensazione è quello che accade quando mettiamo in pausa il gioco: si accede al “libro a fumetti” dei livelli appena superati che può essere sfogliato come un vero e proprio albo. Un interessante riassunto che consente di “rileggere” il fumetto delle imprese appena concluse.

Ma Framed non è di certo l’unico esempio che mescola questi due mezzi. Un altro gioco che può essere annoverato in questa categoria è Florence. In questo caso, il prodotto è più semplice da un punto di vista della giocabilità: ogni situazione è sintetizzata con una vignetta a scorrimento e le operazioni che deve effettuare il “giocatore” non sono enigmi da risolvere, bensì azioni che lo portano a sostituirsi a quello che fa uno dei due protagonisti della storia, “aumentando” di conseguenza l’effetto di immedesimazione e immersione all’interno della storia. Per esempio, ci possono essere compiti banali e pratici, come sventolare una polaroid per far sviluppare la foto oppure disporre le proprie cose dopo un trasloco nella casa nuova, ma anche delle azioni più simboliche, come cercare di ricostruire una foto dei due innamorati fatta a pezzi mentre i frammenti si allontanano perché i due si stanno separando. Quello che rende interessante il gioco è lo “scopo”: non ci troviamo di fronte a una missione da compiere o a nemici ai quali fuggire, ma attraverso questi compiti siamo indotti a provare i sentimenti semplici e partecipi di una storia d’amore che nasce, si sviluppa e poi si conclude. La scelta dello stile grafico riflette perfettamente il genere di racconto: si tratta di un segno che fa riferimento allo stile di Dupuy e Berberian, ideale per un racconto delicato.
Un’ulteriore differenza rispetto al gioco precedente è il fatto che si sviluppa sia in verticale (nella maggior parte dei casi, vere e proprie vignette che raccontano eventi, quasi una sorta di “cutting scene” statico, in cui non ci sono attività da svolgere) sia in orizzontale (le azioni con cui il “giocatore” interagisce per diventare parte della storia). C’è una flessibilità che permette una maggiore partecipazione e che sembra quasi fondere in sé il fumetto digitale per cellulari (la lettura in verticale) e il gioco (l’andamento orizzontale). È un prodotto anomalo, che infrange le barriere del videogioco e del fumetto, mescolando e ibridando i due mezzi per raccontare una storia comune, che ha comunque l’ambizione di coinvolgere ed emozionare.

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