Leeloolalità

Boris Battaglia | Bagatelle per un Alph-Art |

La notte che bruciarono Chrome, io ero lì. Posso testimoniare che fu uno spettacolo incredibile e accecante. Probabilmente la stessa meraviglia la provarono solo coloro che assistettero a un altro grande incendio, che segnò la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra: l’incendio che, nel 642, distrusse in modo definitivo la biblioteca di al-Iskandariyya.
Raccontano, storici come Al-Maqrizi e Ibn Khaldun, che quello del 642 fu un incendio di tale potenza, che chi vi assistette senza schermi adeguati per proteggersi le retine, riportò gravi danni alla vista. Se, addirittura non la perse.
Credo che sia per questo che quel manipolo di scrittori che stabilì i parametri rivoluzionari della narrativa cyberpunk, William Gibson, Bruce Sterling, Rudy Rucker, John Shirley e gli altri (che adesso non ricordo), volevano chiamare il loro movimento Mirrorshades. Non gli si può dare torto: io, per esempio, mentre ero lì che assistevo all’incendio di Chrome, indossavo un bel paio di Rayban Shooter da 62 mm con rarissime lenti a specchio, che avevo comprato al mercatino militare di Livorno e che qualche anno dopo rivendetti tirandoci su il necessario per un viaggio in Marocco sulle tracce di un altro movimento letterario (ti dice niente William Burroughs?).

Scusami, come sempre sto divagando. Torniamo a noi.

L’atto fondativo del movimento cyberpunk è la pubblicazione, tra il 1977 e il 1985, sulla rivista “Omni”, dei racconti che poi confluiranno nelle due antologie Mirrorshades e Burning Chrome (entrambe del 1986), che in Italia arriveranno solo nel 1989 con la traduzione mondadoriana di La notte che bruciammo Chrome (Urania n.1110). Lo so che Neuromante era già stato pubblicato due anni prima dalla Edizioni Nord, ma che ci vuoi fare?, stavolta ero arrivato in ritardo. Il Cyberpunk io lo scopro solo con quell’antologia. Poi recupero tutto, ma non è questo il punto. Il punto è che quando io lo scopro, a detta dello stesso Gibson (che lo dice in qualcuna di quelle interviste raccolte in Parco giochi con pena di morte, Mondadori, 2001), il cyberpunk come corrente letteraria d’avanguardia è già praticamente esaurito.
Se lo dice Gibson è assolutamente vero. Però, al di là del movimento letterario in sé e delle sue opere, (che come tutti i movimenti non è nato dal nulla per autopoiesi, ma ha avuto dei precursori Dick, Ballard, persino Heinlein per alcuni versi), la cosa rivoluzionaria è stato l’impatto generale che esso ha avuto sull’immaginario e l’incendio che ha scatenato nelle strategie narrative. Per capirne la portata è sufficiente considerare il fatto che nel 2008, quando mette in rete il suo browser, Google gli da lo stesso nome di quella crudelissima criminale, tenutaria del bordello “La casa delle Luci Blu”, a cui Gibson aveva dedicato il titolo del suo racconto.

Se penso a un termine per definire questa cosa mi viene in mente, non senza sorridere, leeloolalità. Ti spiego perché. In tutte le cosmogonie con cui le culture umane hanno cercato di spiegarsi l’origine dell’universo e l’equilibrio tra l’uomo e il mondo, sono fondamentali i quattro elementi: aria, terra, acqua e fuoco. Per come ce la racconta Luc Besson in un film del 1997 che al Cyberpunk paga più di un debito, è un famigerato quinto elemento a portare scompiglio in quell’equilibrio, mutandolo e minacciando l’esistenza stessa dell’universo. Nel film questo quinto elemento è rappresentato da un artefatto biomeccanico che è lo splendido corpo di Milla Jovovich e che nella finzione filmica è un personaggio di nome Leeloo. A mio avviso lo scarto concettuale nella rappresentazione dei corpi introdotto dal cyberpunk trova il suo punto critico (che ne evidenzia tutta la debolezza) proprio in questo personaggio. Che poi ho sempre pensato che il quinto elemento non fosse altro che lo Squid, il dispositivo in grado di registrare dalla corteccia cerebrale, le esperienze sensoriali per permetterne poi il riutilizzo a chiunque, di cui ci racconta Katryn Bigelow in Strange Days.

Ma per spiegarti questa cosa siamo andati troppo in là nel tempo. Dall’uscita di Strange Days tocca tornare un attimo indietro, di almeno 5 anni.
Più o meno un anno prima che nella collana di Urania uscisse La notte che bruciammo Chrome, su Rai3, il sabato sera a un orario impossibile che ti conduceva fino alle tre del mattino, comincia la trasmissione di una specie di Talk Show in cui una specie di armata Brancaleone (David Riondino, Tatti Sanguineti, Giulio Giorello, Guido Harari e Ilona Staller), chiacchiera – rigorosamente in diretta – di cinema e di immaginario, intorno a un bigliardo, mandando in onda, sulla scia di suggestioni nate durante la chiacchierata reperti d’archivio e film trascurati dai palinsesti tradizionali. Questa sorta di strano anello si chiamava Fuori Orario e come sottotitolo aveva una decisa dichiarazione d’intento: contenitore anarchico d’immagini.

Cosa c’entra questo con il cyberpunk? Aspetta, ci arrivo.

Succede che nella quinta puntata di questa cosa televisivamente aliena di cui non mi perdevo nemmeno un minuto, un cameraman poco avveduto, o fin troppo avveduto, inquadra per pochi secondi la Staller che, prevedibilmente, nell’enfasi del discorso esibisce la propria nudità. Il programma venne sospeso. E riprese nel 1989 con una formula e un sottotitolo diversi: Cose (mai) viste. Nonostante questa normalizzazione ci avrebbe riservato ancora qualche sorpresa. Una su tutte il 29 marzo del 1990.
Mentre guardo Tetsuo di Shinj Tsukamoto capisco quanto è stata pervasiva la lezione del cyberpunk letterario. Al punto da segnare una vera svolta in tutte le altre forma narrative, almeno in quelle che frequento e che conosco bene come il cinema e il fumetto.
Tetsuo è la storia cruenta di un uomo che, a causa di un incidente, si trasforma lentamente in macchina, innestando su di sé parti meccaniche (penso all’Automatic Jack che si era innestato un braccio meccanico, o al corpo artificialmente potenziato di Molly, tutti personaggi di Gibson). Il 1990 è anche l’anno in cui arriva nelle edicole la rivista “Zero”, che propone un tipo di fumetto con cui non avevo avuto particolare frequentazione, e dove le tematiche di un film come Tetsuo sono materia comune e ricorrente: i manga.

Umberto Eco ha scritto che gli eroi del fumetto sono inconsumabili, chiusi all’interno di una circolarità temporale che non gli permette di consumarsi, di avvicinarsi cioè alla morte, e portava come esempio di questo Superman (Il mito di Superman, in Apocalittici e integrati, Bompiani, 1964). Ecco. Il cyberpunk declinato a fumetti ci mostra che questo non è più vero. I corpi dei personaggi dei fumetti mutano e si consumano.
I corpi di Baoh e di Xenon, fumetti che leggo sulle pagine di “Zero”, sono contaminati da parti meccaniche, spesso programmati come armi, che ripropongono in chiave cyberpunk l’antico dilemma etico del rapporto tra attore e macchina e soprattutto che, come quello di Tetsuo, si consumano.
Quello del maggiore Motoko Kusanagi, la protagonista principale di Ghost in the Shell, addirittura è un corpo consumato all’inizio e ricostruito. Mentre quello dell’Alita di Yukito Kishiro, è praticamente un’arma costruita attorno a un cervello umano. Ma tutte queste sorelline maggiori di Leeloo, impallidiscono davanti alla più iconica delle mutazioni. Da cui la storia del fumetto non può più prescindere. Quella di un altro Tetsuo.

E qui abbiamo un’altra dimostrazione di come questo movimento, il cyberpunk, che deve accidentalmente il suo nome a un racconto scritto nel 1980 da Bruce Bethke, sia stato così diffuso da poter essere interpretato come una comune sensibilità, non derivata dalle paturnie di un gruppetto di giovani scrittori arrembanti, quanto piuttosto dalle attuali condizioni del mondo. In questo senso il cyberpunk potrebbe essere visto come il denominatore di un epoca dell’immaginario successiva al postmoderno. Ma è un’ipotesi ancora tutta da verificare. Il fatto sicuro è che Otomo, quando realizza Akira, siamo nel 1982, non ha avuto il minimo contatto con la nuova letteratura fantascientifica, ed è piuttosto influenzato dai fumetti postmoderni di Moebius, come The Long Tomorrow o Arzach, o Mondo Mutante di Corben. Insomma tutto quello che girava attorno a “Metal Hurlant”. Il tema a cui Otomo presta maggiore attenzione è quello che, all’inizio degli anni ottanta, sta mettendo in crisi tutta la postmodernità, e che ogni cultura affronta a modo suo (basti pensare, per esempio a Claremont eai New Mutants): la mutazione del corpo adolescente. Monstruos adolescent lo definisce Susan J. Napier nel suo saggio imprescindibile Anime from Akira to Princess Mononoke.

I protagonisti dei romanzi di Gibson, Sterling e compagnia sono giovani hacker che modificano volontariamente il proprio corpo per appropriarsi della contemporaneità: distruggere le difese di Chrome, per esempio e appropriarsi delle sue ricchezze. I giovani protagonisti di Otomo, probabilmente perché della contemporaneità conoscono le conseguenze (il Giappone è l’unico apese ad avere sperimentato sul proprio corpo sociale le conseguenze della bomba atomica) modificano il proprio corpo per ottenere il potere e riportare il paese a un antica (e ovviamente irraggiungibile) innocenza. In questo senso, mi sembra si spieghino la tensione che spinge Tetsuo alla ricerca di Akira (bambino dai poteri spaventosi ma, appunto, in quanto bambino assolutamente innocente), da un lato, e dall’altra l’invulnerabilità del corpo di Kaneda, nel quale è racchiusa tutta la nobiltà dell’arte della guerra e del comando di una non meglio indicata età dell’oro).

Pur elaborando al propria narrazione in direzioni diverse, tutte le espressioni del cyberpunk mi sembra andassero esattamente verso un superamento, necessario – e purtroppo, mi sanguina il cuore a dirlo, il fumetto popolare italiano ancora non si è reso conto di questa necessità – del postmoderno, esattamente nel momento in cui il postmoderno veniva teorizzato.

Esattamente per questo motivo il corpo di Tetsuo (non credo che l’omonimia sia un caso, sospetto che quello di Tsukamoto sia un omaggio a Otomo) nel fumetto Akira, che leggo sempre in quel 1990 grazie a Glenat Italia, muta in modo grottesco fino a deflagrare in un’esplosione psichica. Accecante, come l’incendio di quella fatidica notte in cui bruciarono Chrome. E niente fu come prima.

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(Quasi)