Velo non velo di Anna Muzio e Lorenzo Sartori

Quasi | Plat du jour |

Introduzione di Anna Muzio

Velo non velo è un pezzo di giornalismo grafico. L’idea è venuta a me e Lorenzo nel 2017 davanti a un caffè, che per noi vuol dire «un espresso e un americano annacquato, grazie».
Velo non velo però doveva essere un’altra cosa, e questo spiega anche i due anni trascorsi dalle prime interviste alla pubblicazione. E anche un po’ la sua struttura, la presenza di grafici e video (qui ridotti a un link) e veli colorati che dovevano essere pezzi di stoffa e infografiche e altre cose che ci saremmo inventati.
Perché Velo non velo (che all’inizio aveva il titolo provvisorio di Perché lo metti?, la prima domanda che facevamo alle intervistate) doveva essere il primo fumetto al mondo realizzato interamente e unicamente su muro, dal vivo, con tavole grandi 140 cm per 200, una tavola al giorno nel corso di due settimane di lavoro pubblico. Che si sarebbe allargato nella nostra idea a performance musicali, street food, letture e quant’altro. Le tavole sarebbero state fotografate e messe su carta solo in un secondo tempo.
Cosa è successo poi? È successo che non abbiamo trovato il muro, anzi i muri perché dopo la prima idea di coprire le tavole man mano con le successive avevamo pensato a una performance artistica itinerante, in cui i 12 “quadri” sarebbero stati realizzati nelle periferie milanesi in una sorta di caccia al tesoro per la città, stile Banksy se vogliamo.
Niente muri niente sponsor niente Banksy, alla fine eccoci qui con un fumetto “classico”. Anzi un lavoro di giornalismo grafico. Realizzato sul campo, con i ritmi e le modalità di un’inchiesta giornalistica.

Nel 2017, quando abbiamo iniziato le interviste, parlare di velo era molto d’attualità. Si discuteva se fosse giusto o meno bandire il burkini in pubblico come in Francia, era l’anno degli attentati di Manchester e Berlino, del movimento del velo bianco contro l’obbligo dell’hijab in Iran e di altre cose più leggere come la prima modella a sfilare col velo e la Barbie col velo. Insomma, se ne parlava parecchio. Ma molto raramente parlavano le dirette interessate, piuttosto se ne prendeva le parti o le si attaccava, o compativa, come se fossero concetti, simboli o ologrammi e la loro vita  e i loro pensieri si riducessero a quell’unico ma assai controverso pezzo di stoffa.
Tengo a chiarire, “da donna e in quanto donna”, nonché autrice (o meglio, curatrice) dei testi, che non è mai stato nostro intento fare una battaglia di integrazione. E nemmeno filosofeggiare sul concetto di velo.
Constatato che un filo di pregiudizio distorceva il nostro stesso sguardo sulla realtà viva di una donna con il velo, ho deciso di costruire un pezzo giornalistico in cui ho fatto il più possibile per annullarmi e dare voce a quanti – come sono in somma misura le donne con il velo – non hanno voce nella nostra società, e ancora meno in altre. E ci siamo anche sforzati di abbracciare posizioni e storie le più differenti possibili una con l’altra.
È stato un lavoro molto forte e anche in certo senso formativo. In particolare l’ultima intervista, quella con Heba, è una summa delle contraddizioni e della complessità del tema, ed è incredibile come il velo, che non abbiamo scelto a caso, riassuma e concentri tanti significati, contraddizioni e sfumature senza essere di per sé un simbolo religioso ma piuttosto culturale, presente in tante culture diverse, compresa la nostra fino a poco tempo fa.

Oggi di velo si parla meno. Ma a Milano, grande coprotagonista del fumetto, di veli se ne vedono sempre. Forse danno un po’ meno nell’occhio, per strada, ma ben poco si vedono nei luoghi di lavoro, ad esempio.
Noi restiamo convinti che l’idea di raccontare delle storie in presa diretta sia ancora valida.
E diffidiamo da semplificazioni e semplificatori.

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