Diaboli e dimònii da viaggio

Francesco Pelosi | Ritratti |

Seguito da una nota sui disegni de La Came

Nel 1985, L’Ottava, l’allora casa editrice di Franco Battiato, pubblicò il libro Vedute sul mondo reale, raccolta di conferenze di G.I. Gurdjieff. Nell’introduzione si legge che «nato alla fine del secolo scorso alla frontiera russo-turca, G.I. Gurdjieff, sotto l’influsso del padre e dei suoi primi maestri, aveva iniziato molto presto a interrogarsi su se stesso e a cercare poi instancabilmente degli uomini capaci di illuminarlo».
Dopo molti anni di viaggio e ricerche, come raccontato nel libro Incontri con uomini straordinari, Gurdjieff, prendendo elementi di varie filosofie e religioni (dai sufi, ai dervisci dell’Islam mistico, fino anche al cristianesimo), fondò una propria scuola di pensiero, basata su un concetto fondamentale: la condizione naturale nella quale vive l’umanità è il sonno. Nasciamo addormentati e agiamo per tutta la vita come un esercito dormiente, credendo di muoverci secondo volontà ma essendo invece costantemente schiavi. Perché dietro ogni nostra azione, dietro ogni nostro pensiero, c’è qualcosa di altro che noi non conosciamo. Trappole dell’inconscio, catene invisibili dell’ego e simili. Il lavoro proposto da Gurdjieff, ovviamente, puntava alla rottura di questo incantesimo, poiché, come ha illustrato Francisco Goya, Il sonno della ragione genera mostri.

Se, come scrive La Came nella prima delle illustrazioni che accompagno con queste righe, ogni viaggio è alla scoperta di quei demoni (o diaboli) che ci portiamo da casa, dieci anni fa, quando attraversai  la costa Nord della Spagna, percorrendo l’antica strada ribattezzata poi dai cristiani Cammino di Santiago, ne avevo lo zaino pieno zeppo. Con me, oltre a quel qualcosa di altro che non conoscevo, c’era anche un libro che parlava di Gurdjieff e del suo lavoro: Frammenti di un insegnamento sconosciuto di P.D. Ouspensky.
Per un mese, da solo in mezzo al rigoglioso autunno spagnolo, con l’oceano costantemente alla mia destra, non feci altro che camminare e leggere quel libro (oltre a mangiare, bere, e ricucire bottoni). Effettivamente qualcosa in me cambiò, il mio punto di vista sul mondo ad esempio, sulla natura che ci ospita e nella quale prosperiamo, o anche semplicemente alcune modalità con cui mi rapportavo con me stesso. Ma i miei demoni, no. Quelli erano sempre lì ad attendermi, in ogni hostales, a ogni tappa, in ogni bicchiere, solitario o in compagnia.

La Came dipinge questi dimònii che ci portiamo da casa durante i viaggi come “Uomini Alga”, creature impossibili in giacca e cravatta, con due antenne che sembrano solide e viscide e una serie di dentini aguzzi che, soltanto a guardarli, mettono un disagio profondo nell’anima. Dentini come quelli che ha certamente in bocca l’Humpty-Dumpty, anche se John Tenniel non ce li fa mai vedere.
Humpty-Dumpty, l’uovo che intrattiene Alice in Attraverso lo specchio con le sue considerazioni sulle parole e sul linguaggio, è una figura profondamente inquietante. Un essere tragicomico che proietta su chi lo guarda un misto di fascinazione e repulsione, il tipo di attrazione ambigua propria di alcuni personaggi delle favole, capaci di scatenare  suggestioni dal profondo.  Come il Gatto e la Volpe di Pinocchio, o il nano della Loggia Nera di Twin Peaks, quello che parla al contrario.
Queste figure, incontrate da bambini, ci accompagnano per sempre nei nostri viaggi. Si può credere che siano solo personaggi di un libro o di un film, ma sono in realtà molto peggio. Sono immagini che hanno colonizzato la nostra intimità. E ora i nostri demoni portano la loro maschera.

Quando andavo alle elementari, tutti i miei compagni di classe guardavano film dell’orrore, mentre a me era proibito. Ma non avevo problemi con questo divieto: io stesso ero il primo a non volerli vedere. Avevo visto le immagini del  clown di IT o del Freddy Krueger di Nightmare in qualche giornale, e preferivo di gran lunga non averci nulla a che fare. Mi terrorizzavano totalmente. Anche se il peggio per me era proprio Twin Peaks.
Quello non lo avevo mai visto, nemmeno un fotogramma né un volto, ma i miei compagni di scuola me ne avevano parlato. Mi avevano detto della Loggia Nera, di Bob che sta nel corpo delle persone vive, e del nano che parla al contrario. Ecco, il nano: quella fu forse la prima immagine che mi fece paura senza che io l’avessi vista. Non sapevo che volto avesse, non avevo mai sentito la sua parlata a rovescio, sapevo solo che in quel telefilm  c’era un nano che aveva a che fare in qualche modo coi mondi oscuri. Questo bastava a invadere di paura l’impero della mia mente. Le suggestioni da cui ero dominato.

Per anni me lo sono immaginato nel corridoio buio di casa mia, quello che dalla cucina portava al bagno, lì ad aspettarmi, se non avessi acceso in tempo la luce. Me lo sono immaginato a ogni angolo di strada, mentre rientravo la sera. A ogni porta chiusa prima di dormire. Con il suo volto inespressivo e maledetto, lì in attesa. Mi bastava l’idea della sua presenza per avere paura. Tramite le sole parole dei miei amici avevo creato quest’immagine del terrore e me l’ero scolpita negli occhi.
Poi, qualche anno fa, ho guardato finalmente Twin Peaks e quella paura arcaica è cessata. Sostituita, forse, da un’altra, più razionale e controllata, oppure soltanto coperta, mascherata, in attesa di sorprendermi nel cuore della notte. Magari in un qualche hostales sperduto fra le colline, nelle vicinanze di Sobrado Dos Monxes, in Galizia. Quando le immagini dell’inconscio, alimentate dall’isolamento e dal buio, possono correre libere e fuoriuscire dallo zaino, a contrappunto di ogni pensiero e di ogni rumore.
Non è un caso se la quasi totalità delle discipline definite sbrigativamente “mistiche” o “spirituali”, come quella di Gurdjieff, puntino molto sul riuscire a interrompere il flusso dei pensieri. Una cosa difficilissima da sempre, e oggi ancor di più, nel regno dell’immagine inarrestabile e eternamente replicata dove ci troviamo.

«Dovremmo avanzare, anche sul percorso più breve, con imperituro spirito d’avventura, come se non dovessimo mai far ritorno, preparati a rimandare, come reliquie, i nostri cuori imbalsamati nei nostri desolati regni», scrive Henry David Thoreau in Camminare.
L’immagine dei demoni che portiamo in viaggio con noi, è esattamente l’immagine del ritorno, i diaboli che ci portiamo da casa. Inutile parlare della differenza tra un viaggiatore, un turista o un villeggiante. Ma il luogo delle paure, la Loggia Nera, sta proprio lì. È quello il fiume in cui non possiamo bagnarci due volte, come sentenziava Eraclito l’Oscuro, e nel quale invece vogliamo sempre ritornare. Sono quelli i pensieri e le immagini che passano costanti e impetuosi a occultare il nostro vero sé. A farlo dormire. A invaderlo di paure, di diavoli.
Sempre in Camminare, Thoreau dice che i vagabondi erano «genti oziose che nel Medioevo percorrevano il paese chiedendo le elemosina col pretesto di recarsi à la Sainte Terre». Per questo i bambini, vedendoli passare con continuità, cominciarono a gridare: «Guardate là, un Saint Terrer!», un Terra Santa, e in seguito, per quelle magnifiche acrobazie che fa la lingua orale, questi sono divenuti i Sans Terre, i Senza Terra. I Vagabondi. Quelli che vagano, padroni di niente, senza bisaccia, senza zaino, senza valigie. Senza demoni, diaboli o dimònii. Quelli con la mente sgombra, gli esseri liberi.
Il compianto Claudio Rocchi immortalò quest’alta arte umana in una sua canzone del 1979, Camminare, appunto. Cantava: «Mi son sentito un altro/ molto presto e sulla strada,/ momenti per fermarsi sempre pochi./ Le cose con il tempo si spiegano da sole,/ nel senso che è più facile capire./ Io voglio, lo scopo è sempre cercare,/ volere non è volare/ semmai,piuttosto, è camminar»”.
La canticchiavo spesso, fra me e me, sul Cammino di Santiago. Ma dallo zaino arrivavano sempre le urla e le bizze dei demonietti che mi portavo da casa. Non ero un Senza Terra io, nemmeno là, sotto le piogge del Nord della Spagna. Avevo un immaginario a cui tornare, un covo millenario di paure, facce, dentini aguzzi, impiccagioni e parole, placidamente accovacciato nello stomaco e nella mente, ad attendermi.  


[ecco la nota] Diaboli e dimònii da viaggio è il titolo di queste illustrazioni del 2007 di Laura LaCame, contenute nella prima antologia del collettivo Ernest, di cui Laura faceva parte insieme a Sara Pavan, Francesco Cattani, Vincenzo Filosa, Rebecca Rossi, Samantha Luciani, Lise&Talami.
Dice, a proposito di quell’esperienza: «Quando entrai a fare parte di Ernest, facevo la postina a Minerbio già da un paio di anni. Ernest, mi fece tornare la fregola del disegno, in un periodo in cui avrei potuto abbandonarmi e ingrigire per sempre in un lavoro da impiegata statale. Così non è stato! Appena tornata da un viaggio a Tokyo, ero colma di una massa oscura di pensieri da esplorare. Da sola non ce l’avrei fatta. Avevo bisogno di un progetto, avevo bisogno che qualcuno mi aspettasse alla fine del processo. È nel caldo abbraccio del collettivo che mi sento libera di tirar fuori i demoni che mi porto dietro.»

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