Ciclofascisti

Ugo e Michel | La grande abbuffata |

(Le illustrazioni sono di Lucia Lamacchia, che è responsabile di quanto segue almeno quanto lo sono Ugo e Michel.)

È un dolore insopportabile. Una terrificante violazione della nostra intimità. Uno sconosciuto che si muove con sicurezza in casa nostra. Tocca le nostre cose, le sposta. Chiude i libri, lasciati aperti un po’ ovunque, e li pone in pigne ordinate ma completamente prive di senso. E spolvera, lucida, spazza. Non nutre alcun affetto per il nostro nido ed è proprio quella sua assoluta indifferenza a garantirgli la capacita di essere preciso e crudele. Il suo passaggio sembra negare l’irreversibilità dell’entropia. Tutto assume una forma. Lo odiamo, mentre ci spostiamo da una stanza all’altra per non condividerne gli spazi. Per non assistere a quelle violazioni. Abbiamo una scusa valida in questo periodo.

Berta ci ha telefonato. Ci ha detto che non potrà fare sforzi per qualche settimana. In un periodo in cui il sistema medico nazionale rischia il collasso, lei è una vittima collaterale. Ci ha spiegato che i mezzi dovrebbero viaggiare semivuoti, eppure questa cosa, molto sensata, non si sta verificando. I tram e i pullman, negli orari in cui li deve prendere lei, sono stipati di mascherine che smorzano l’odore di carne sudata ma appannano gli occhiali. Quei convogli sono spaventosi. Ce li descrive facendoci risuonare nella mente il titolo di un racconto di Clive Barker, Macelleria mobile di mezzanotte. A quel punto chiarisce che lei non può certo prenderli, quei mezzi, perché, se si ammala, suo genero, uomo privo di creanza, non le farà frequentare i suoi angioletti per un bel po’. Allora va a piedi. Non si lamenta per la strada. Il tempo è clemente e le piace passeggiare per la città quasi vuota. Solo che ci sono i ciclisti. Attraversare la strada sulle strisce è un disastro: non si fermano mai. Sono sempre sul marciapiedi o contromano. Sbucano da dove non te li aspetti, indisciplinati e scorretti. L’altro giorno, uno di questi sciagurati ha suonato il campanello nervosamente dietro di lei sul marciapiede. Berta, scartando di lato spaventata, ha messo male il piede sul bordo e si è fatta male. Il ciclista le è passato accanto velocissimo, ringraziando, e lei avrebbe preferito non lo facesse. Il medico le ha detto che è una distorsione tibio-tarsica o una cosa così. Adesso ha una fasciatura e non potrà lavorare per qualche settimana. Non riesce a nascondere il tono gioioso nella voce quando ci dice che sarà costretta in casa con i due angioletti, mentre sua figlia e quello là lavorano con il computer. Poi aggiunge: «Non vi preoccupate, non vi lascio la casa sporca. Jordi è bravissimo. È in pensione e viene lui al mio posto.», e conclude, «Così resta tutto in famiglia.»

Proprio non ce la facciamo a sentire affetto e comunanza per quest’uomo che ha una ventina d’anni più di noi e pulisce casa con un vigore che non avremmo avuto, insieme, vent’anni fa. È una macchina. Non si ferma mai. Si muove per casa e parla sempre. Non sappiamo con chi. Impreca continuamente, mentre rassetta casa a una velocità impressionante. Non lo ferma nulla. Solleva il letto. Ci pare bofonchi insulti rivolti anche a noi. Sale con la scala in cima all’armadio. Ce n’è anche per Berta, quando scova angoli in cui non pulisce da tempo. Impreca soprattutto contro i ciclisti.

Quando sembra aver pulito tutto, accetta il caffè che gli offriamo. Difficile trovare un punto di contatto con un individuo di cui conosci solo il nome, le capacità di rassettare una casa e l’estensione lessicale nel profferire invettive. «Come va?» è la domanda più idiota che un umano possa fare. Serve a riempire il tempo fino al momento del commiato. Nessuno si aspetta una risposta onesta. Capita, a volte, di incontrare anime pure, incapaci di riconoscere uno stratagemma che serve solo a mostrare un’educata indifferenza. Queste persone, nella loro assurda semplicità, rilevano impropriamente un reale interesse in chi pone il quesito e rispondono dettagliatamente. Jordi ci parla della sua infanzia catalana, della fuga dal mierda e dalle sue schifezze, dei suoi amori italiani. E scandisce il racconto, lunghissimo, dettagliato, pieno di informazioni accessorie, inarrestabile, con la presenza ostinata di biciclette. Non c’è un solo momento della sua vita in cui non ha pedalato con vigore. Pare quasi che la bici sia stata per lui ragione di vita. Poi, senza arrivare da nessuna parte, guarda l’orologio e ci dice che deve scappare.

Sulla porta, salutandoci con un trasporto che ci sembra addirittura inappropriato, si volta a guardarci un’ultima volta. Scuote la testa e, prima di infilarsi in ascensore, sibila: «Meldetti ciclofascisti…».

Ti è piaciuto? Condividi questo articolo con qualcun* a cui vuoi bene:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

(Quasi)