Il mondo subatomico delle parole

Peppe Liberti | Il quark e il pinguino |

È il 12 maggio del 1959 il giorno in cui Wally Weawer, assistente di ricerca nel laboratorio della base Gila Flats nel deserto del New Mexico, presenta Jon Osterman a Janey Slater.
«Ohhh, il nuovo ragazzo!», esclama sorridente la scienziata e chiede, «sei qua per sostituire Hank Meadows?»
Hank era morto alcuni mesi prima per una qualche forma di tumore ma il suo volto occhialuto lo si poteva ancora vedere impresso nella foto appiccicata alla lavagna dietro al bancone del bar.
«Gira il capo, Jon», deve aver pensato Janey, «distogli il tuo sguardo dal mio, l’immagine è lì con le altre, sotto la frase “at play amidst the Strangeness and the Charm”, in gioco tra la stranezza e l’incanto. Possibile non ti riguardi? Sono i quark, Jon, quelli di cui siam fatti, siamo solo un mucchietto di quark ed elettroni che miliardi di anni di evoluzione han trasformato in individui fragili e complessi. Come i giaguari: “The world of the quark has everything to do with a jaguar circling in the night”. Lo dimenticherai presto, Jon, vedrai solo la materia di cui siam fatti e non distinguerai più tra la vita e la morte. È per questo che ora mi devi seguire. Ti va una birra?»

Gli scienziati di quel mondo avevano dunque assaporato i quark (quelli al gusto di stranezza e incanto, quantomeno) già nel 1959, quattro anni prima che Murray Gell-Mann e George Zweig, nel nostro mondo e in maniera indipendente, ne facessero menzione. Zweig ne aveva immaginati quattro e li aveva perciò chiamati aces, come gli assi delle carte da gioco, per Gell-Mann invece tre erano sufficienti e così, dopo averli chiamati squork o kwork, come faceva con tutto quello che esibiva una natura inconsueta, li aveva battezzati quark, per farsi vanto di aver letto con attenzione il Finnegans Wake di James Joyce: «Three quarks for Muster Mark» è la frase che cita e questa storia è fin troppo nota. Come ogni teoria che si rispetti anche quella di Gell-Mann avrebbe avuto bisogno di qualche aggiustamento e così la microscopica famigliola sarebbe presto passata da tre componenti (i quark chiamati up, down e sideways, poi ribattezzato strange) a sei (con in più il charm, il quark incantato, chiamato così da Sheldon Glashow quando pareva poter risolvere per magia tutti i problemi della vecchia teoria, il bottom o beauty e il top o truth). Tutti previsti e poi “visti”, come metodo sperimentale insegna.

Alan Moore riaffronta la questione nel 2002, in una lunghissima intervista pubblicata per la prima volta sul sito “Engine Comics” e poi altrove. Riuscire a creare una parola e controllare se esiste sul dizionario, se ha il significato che si ritiene possa avere è di capitale importanza, aveva detto, e dunque «trascorrere un’ora provando a ottenere la parola giusta, col suono giusto, il sapore giusto, il giusto colore… che si adatta alla perfezione» non era certo perdere tempo. Del resto, aveva aggiunto, se vuoi fare lo scrittore devi essere in grado di coprire tutto il territorio del linguaggio, «dalle categorie più ampie fino al dettaglio sub-atomico di parole e sillabe» e poi scendere ancora più giù, fino ai quark e a tutti «quei termini misteriosi come Strangeness e Charm». Gli erano rimasti bene in mente, insomma. «Penso che Quark venga da James Joyce», aveva poi sottolineato, «che sia una parola di James Joyce. Qual è la citazione corretta? “Un quark…” L’ho dimenticata. O forse è legata a Lewis Carroll, a The hunting of Snark. Sì, sai, questo è un territorio magico».

Quark ha il suono, il sapore e il colore di una parola cercata per non meno di un’ora ma qual è dunque il suo significato? Qualche ipotesi è stata azzardata. La prima, cara a Gell-Mann, è quella alcolica: «Three quarks for Muster Mark» è in realtà una variante di «Three quarts for Mister Mark», tre quarti (di birra) per il Signor Marco. La seconda è quella che leggiamo per esempio sulla Treccani: quark deriva da question mark, punto interrogativo, e dunque va inteso come cosa ignota o inconoscibile. La terza ha di nuovo una natura alimentare: il quark, per i Tedeschi, è un formaggio molliccio che Joyce a Zurigo avrà certamente mangiato, la cagliata, magari servita con erba cipollina. La quarta e ultima deriva dalla terza: quark, in senso figurato, è usato per indicare la sporcizia o una sciocchezza, un sinonimo dell’assai simile Quatsch. Joyce potrebbe essersene innamorato dopo averlo scovato nel Prologo in cielo del Faust di Goethe, là dove Mefistofele, conversando con Dio, dice dell’uomo che «in ogni lordume va a ficcare il naso» («In jedem Quark begräbt er Seine Nase»). Può essere, perché no? Le tre schifezze suona anche bene, a dirla tutta.

La sequenza Goethe-Joyce-Gell-Mann era ben nota già al tempo in cui i quark erano ancora stati solo immaginati. Ne è prova una breve e spiritosa nota dal titolo “Have quarks been seen?” pubblicata nell’ottobre del 1967 su “Physics Today”, il giornale dell’American Institute of Physics. Lì l’ingegnere nucleare R. Hobart Ellis Jr., editor della rivista, era stato in grado di fornire la risposta alla questione che avrebbe discusso molti anni dopo Alan Moore: quark equivale a queer snark e, nella notazione di Lewis Carroll, al pericolosissimo Boojum. «For the Snark was a Boojum, you see» («perchè lo Snark era un Boojum, capisci») è infatti il verso che chiude il poema The Hunting of the Snark. Tutto chiarito. Il nostro ingegnere aveva anche svelato che gli ineffabili booja erano già stati senza alcun dubbio scoperti ma siccome la loro rilevazione portava ogni volta alla sparizione sia dell’osservatore sia dell’apparato di osservazione, in giro non si trovava nessuno in grado di testimoniarla.

Una delle frasi più citate di Watchmen è l’ultima che il dottor Manhattan rivolge a Laurie Juspeczyk prima di ripartire da Marte verso New York: «Vieni… asciugati gli occhi, perché tu sei vita, più rara di un quark e più imprevedibile dei sogni di Heisenberg; l’argilla in cui le forze che modellano tutte le cose lasciano le loro impronte più evidenti.» Quando aveva parlato con Rorschach, subito dopo la morte del Comico, era stato meno tenero: «Un corpo vivo e un corpo morto contengono lo stesso numero di particelle. Strutturalmente, non c’è una differenza apprezzabile. Vita e morte sono astrazioni non quantificabili. Perché dovrebbe interessarmi?» Manhattan non giudica, conosce e la conoscenza profonda lo porta al distacco. Gli altri esseri non sono altro che fasci di quark ed elettroni che si son fatti carne ed ossa. E lacrime.

«Asciuga gli occhi … e andiamo a casa.»

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