Sentieri selvaggi

Arabella Strange | Rorschach |

Robert Frost, in The Road Not Taken, scrive:

«Two roads diverged in a yellow wood,
And sorry I could not travel both
[…]
And both that morning equally lay
In leaves no step had trodden black.»

Due sentieri si dividevano in un bosco giallo? È questo il problema, signor Frost? Magari fossero due, io vedo centomila sentieri dividersi. La mia mente prisma vede diramarsi un’infinità di cammini da ciascuno di quelli possibili, frattali come i cristalli di neve quando si formano.
Per me che ho la testa piena di fiocchi di neve le scelte non sono mai facili. Le odio.
D’altra parte non puoi camminare su tutti i sentieri, il tessuto dello spazio-tempo è così sottile ed elastico che, come ha raccontato bene James Ward Byrkit nel suo film intricato e bello  Coherence del 2013, troppi sentieri che si incrociano ti portano inevitabilmente a sbattere contro te stesso, e magari a cercare di ammazzare quell’altra versione di te colpendola col coperchio in ceramica dello sciacquone. Anche al di fuori dei viaggi nel tempo , la metafora regge.
I bivi sono maledetti, per me. Altro che gli incroci. Lì puoi seppellire qualcosa, aspettare un demone, esprimere un desiderio suggellare con un bacio sulla bocca il patto demoniaco: Supernatural, la serie tv, ha stabilito il canone. Ai crocicchi si arriva già decisi. Ai bivi, invece, non è sempre facile decidere, a volte resti incastrato a pensare per moltissimo tempo. Paradossalmente invece quando i sentieri si interrompono oh, be’, non è scelta, è destino.

Non voglio dirlo con leggerezza, ma l’inevitabile è un momento in cui vedi, chiaramente, l’impalcatura della realtà: in particolare quando il sentiero è interrotto brutalmente dalla morte. Non so parlare per chi muore, non so se c’è un sentiero, o se a quel punto il concetto di sentiero abbia senso. Posso però parlare di noi vivi, che abbiamo camminato insieme a lui, o a lei, fino a poco prima, e ci vediamo di colpo davanti il ponte crollato, la frana che estingue la strada.
E possiamo solo strillare la nostra frustrazione, immobili in una inquadratura che, con una carrellata all’indietro, faccia vedere bene come siamo piccole, piccoli, in confronto a quell’immenso paesaggio mutato. Quell’amicizia, quell’amore, sono giunti a uno stop, e non c’è furia o ribellione che tenga.

Ma non ribellarsi per qualcuno risulta difficile, e cerca un sentiero invisibile che si diparta dalla frana o dall’erba incolta. Sir Arthur Conan Doyle, il medico scrittore che pure aveva immaginato Sherlock Holmes, uno che i sentieri, le tracce, sapeva seguirli in modo impeccabile dentro la sua testa, è stato un accanito sostenitore dello Spiritismo. Si era unito alla Società Britannica per la Ricerca Psichica, formatasi a Cambridge per indagare su spiriti, fantasmi e altri fenomeni paranormali, comprese le fate. Lo Spiritismo in quel periodo era diffusissimo, nelle case si facevano le sedute spiritiche con grande frequenza,  disinvoltura ed entusiasmo. Aveva trovato una base nel movimento spiritualista di metà 1800, sorto per opporsi al materialismo, ed era diventato un fenomeno di massa, con milioni di seguaci in molti Paesi del mondo. Doyle ha scritto libri sull’argomento, ha tenuto appassionate conferenze in Europa, Australia, Stati Uniti, Sudafrica. Ha voluto crederci. Lo rispetto molto per questa campagna appassionata e vagamente straniante, a considerarla oggi. È una presa di posizione forte e commovente: non c’era verso che i sentieri potessero interrompersi per lui. Doveva esserci un oltre, con cui comunicare, così che nessuno se ne sarebbe andato per sempre.

Anche io ho pianto e graffiato i muri dalla rabbia, ma Così è la vita, direbbe Kurt Vonnegut, o lo farebbe dire ai tralfamadoriani. Anche mentre ero spazzata dalla furia e dal dolore lo sapevo: bye, questo sentiero continuerà, ma solo solo dentro di me, in un monologo-dialogo che, comunque, mi darà conforto.

Dopo quelli interrotti dal Tristo Mietitore ci sono i sentieri interrotti dalla guerra, dalle pestilenze, da altre catastrofi. Li lascio stare, non so che dire, salvo citare Etty Hillesum che ha scritto: «Mi sembra una curiosa sopravvalutazione di se stessi, quella di ritenersi troppo preziosi per condividere con gli altri un “destino di massa”».  Ci sono troppe cose da dire sui sentieri interrotti dalla barbarie o dai meteoriti, chiedete ai dinosauri, potevano evolversi e dominare la terra, magari con una massiccia vittoria degli erbivori, e invece è toccato ai mammiferi.

Perciò parlerò dei miei sentierini personali, sono più a mio agio. Delle cose che ti domandi se continuare  o interrompere. E che cosa comporterà la tua scelta. Robert Frost sceglie un sentiero, ma poi intitolerà la poesia, che ogni singolo bambino americano imparerà a scuola, La strada che non ho preso. Al bivio scegli, e anche se la strada che ignori continua a snodarsi per conto suo, dentro di te l’hai interrotta. Ognuno di questi sentieri, essenzialmente, è dentro di noi, noi stupidi, esitanti, arroganti, dubbiosi, sventati, distratti. È già molto che non ci perdiamo di continuo. O succede già?

Per esempio: sono stufa di andare dallo psicanalista, ma devo continuare ad andare dallo psicanalista? Il nostro lavoro insieme è finito, o se smettessi, sull’onda di questo disagio, interromperei qualcosa che sta modificandosi, ordinandosi, trasmutandosi? Sono mesi che sento questa cosa nelle gambe, la voglia di scappare. Non solo dal percorso analitico, da quasi tutto.

In questi ultimi mesi, ogni volta che vado allo studio del Dottor B e aspetto l’ascensore – più per pensare che altro, perché a volte, in ritardo, sono volata al secondo piano su quegli strani gradini in sottile pietra nera che amplificano i passi: TUM TUM TUM – sono invasa da una sensazione di scollamento tipo Sliding Doors, una me entra nell’ascensore, che sembra uscito da un film di Dario Argento, e un’altra me dice «fanculo e torna fuori, all’aperto, a rivedere stelle invisibili perché c’è troppo inquinamento», e quella me, mica lo so dove andrebbe a finire. Per ora me la tengo incollata, cucita come l’ombra di Peter Pan, e la porto con me al secondo piano, a sedersi su quella poltrona, a guardare il mio terapeuta che si staglia contro il muro bianco come l’ultima madonna a cui rivolgere una preghiera.

Non capisco, detto semplicemente, se sono ancora su un sentiero. E parlo di un vero sentiero, di quelli con l’erba alta ai lati, e fauna selvatica che lo attraversa.  A volte mi sembra di camminare accanto al terapeuta, a volte di seguirlo e parlargli da dietro, a volte è chiaro che mi lancio tra i cespugli, cappuccetto rosso demente, e lui, compìto e padrone della situazione, attende sul sentiero che io, dopo un po’, tra il docile e il ribello, torni. E il dialogo riprenda.

Sono anni che vado in quell’edificio. Era sede dello studio del mio precedente psicanalista, il Dottor S, da cui dopo anni di maggiore equilibrio non posso tornare perché nel frattempo è diventato un mio amico, ci scambiamo consigli sui libri di fantascienza e le serie tv. A lui piacciono le serie in cui si menano. Possibilmente tramite arti marziali. Dice che dopo aver ascoltato per tutto il giorno lo scoperchiarsi dell’animo umano la sera ha solo voglia di calci volanti e katana. Lo psicanalista da cui vado adesso, il Dottor B, suo allievo, è molto diverso, parla pochissimo, a voce bassa, e ultimamente gli ho detto «La prego, parli, dica cose!» Siamo in un momento delicatissimo, in cui sto scoprendo che la mia rabbia non ammazza nessuno, e non devo per forza riempire tutto lo spazio. Ma la spinta alla fuga è animalesca. Come so che accade quando si arriva a qualcosa di sotterrato con cura. Io, che nella vita reale mi aprirei la strada nella foresta col machete, son lì a piagnucolare che forse il sentiero non porta da nessuno parte, torniamo indietro, è sera, pioverà. È disagio e terrore. In realtà io lo vedo quel sentiero: non si interrompe, non si estingue, prosegue. Sfocia da qualche parte, non come un estuario, piuttosto come un delta, verso una specie di mare immane. Che non raggiungerò mai, ma annuso, sale nell’aria, da lontanissimo.

Ma l’edificio! A pianoterra c’è una portineria fantasma. È nell’angolo più buio, quello dell’ascensore, un angolo scuro che farebbe felice Brian de Palma. La portineria è una vetrata da cui si intravedono un bancone abbandonato, alcuni cavi disconnessi, e la cornetta di un vecchio apparecchio con cui, immagino, i condomini comunicavano con la portineria. Tutto è coperto di polvere che ingrigisce i colori della formica anni Sessanta. Mentre vedo scorrere i numeri sulla placca dell’ascensore che si illumina, quarto piano, terzo, secondo, primo, terra, sbircio a destra, oltre quel vetro. Immagino portinai fantasmi, anzi, è la portineria stessa a essere fantasma, come le case intelligenti di There will come soft rains, Verranno le dolci piogge di Ray Bradbury, che continuano a funzionare per anni aspettando gli abitanti scomparsi. Guardo il mio riflesso pallido nel vetro, in tutti questi anni mi sono affezionata alla portineria fantasma, è stata testimone, nel mio riflesso, dei fantasmi di amori infelici, fottuti trigger delle mie crisi, che si trasformano sempre, inesorabilmente, in una voragine personale che nulla aveva più a che vedere con A, B o C che mi avevano lasciato, o non mi volevano. Questi amanti crudeli scomparivano come mosche nella melassa scura della mia tenebra personale. E così dovevo cominciare un altro percorso, avventurarmi  esitante e disperata su un nuovo sentiero, insieme a un terapeuta. Quella portineria col suo specchio spettrale era diventata una specie di anticamera, per me, un rituale. Chiamare l’ascensore, voltarmi e specchiarmi, trasparente, sul vetro color ombra. La settimana scorsa la portineria è sparita! È rimasto il vetro, pulito. La stanzetta è stata svuotata e imbiancata. Io mi sono sentita smarrita.

Camminare dentro di sé è più selvaggio e pericoloso che camminare sul sentiero distrutto, ingombro di tronchi caduti, mangiato da piccole frane, che facciamo da anni per cercare di arrivare a certe cascate. Non ci siamo mai riusciti. È diventata una battuta: le cascate del Maniva. Un meme. Ci abbiamo provato in due, in quattro, ci hanno provato altri amici, nessuno di noi è riuscito a capire dove realmente il sentiero portasse. Era un sentiero che a tratti diventava invisibile: radure, impianti sciistici, piccole praterie, torrenti.. Il sentiero c’è, lo giurano tutte le informazioni che abbiamo trovato in rete. Se si interrompe, riemerge più avanti, ma in qualche modo a noi sfugge, e le cascate le abbiamo sempre viste lontanissime, da prospettive improbabili e ogni volta diverse.
Ecco, camminare dentro di sé è molto, molto più difficile. I progressi sono ingannevoli. A volte è totalmente buio, e vai, affidandoti a una guida e sperando che sappia quello che fa, oppure procedendo come nei sogni, in una realtà che si crea a mano a mano che la percorri.

Invidio il bivio di Robert Frost. Può permettersi di aver un rimpianto, non centomila. Nella mia testa i pensieri si snodano come sentieri, tutti interrotti, perché come si fa a non saltare freneticamente da uno all’altro? Si può, ci sono delle pillole che funzionano abbastanza bene. Che mi consentono a volte di seguire un pensiero fino alla fine, quando appassisce e ne fa sbocciare un altro. E, se sono temporaneamente libera dal caos, mi fermo, guardo dove metto i piedi, e vado avanti.

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