Stupefatta

Arabella Strange | Rorschach |

Porco, porco, maiale, cane…. e non riesco a incollarci la parola dio, perché non ci credo. E tutta questa furia, contro cosa la scaglio? Contro la pastiglia che non ha funzionato? Contro i quindici giorni di effetti collaterali culminati nel cuore a 120 bpm, come la musica di una delle sale più idiote del vecchio “Number One”? Contro me stessa, che piango in continuazione? Contro la pandemia mondiale, contro il capitalismo che sta ammazzando chi già faticava, ma per fortuna Forbes ci informa che, proprio grazie alla pandemia, i miliardari sono aumentati? Contro un pensiero collettivo cieco, lento, stolido, che non riesce a spingersi oltre dopodomani, oltre il miomiomio, si fottano gli altri, come se non fossimo tutti intrecciati e annodati, sentivo dire incessantemente “loro”, adesso sento ripetere “noi” con la stessa nauseante mancanza di senso. Porcodio sarebbe un sollievo, invece io sono qui che un dio lo cerco: per dialogare «in modo pazzo, infantile o serissimo, con la parte più profonda di me», quella che, come Hetty Hillesum, «per comodità chiamo dio». È solo nel Profondo che riesco, a momenti, a trovare qualcosa che mi consenta di restare unita, non sfarfallarmi in miliardi di molecole.
Dalle mie parti si dice anche diopovero o diocaro, che pronunciate con intensità sono invettive feroci. Invertendole, Povero dio, caro dio, suona completamente diverso. E c’è una dea che a me è cara davvero.
Una povera dea che mi interessa particolarmente, perché cosa c’è nel Profondo, chi c’è sottoterra? Per me, intendo.
C’è Persefone.

La storia viene raccontata in molti modi diversi, ma la versione che preferisco è quella di Persefone che in mezzo a un prato resta θαμβήσας, stupefatta, dalla bellezza di un fiore, si china per raccoglierlo e sotto il fiore si spalanca una voragine, e il dio degli inferi, Ade, la trascina giù con sé. È un attimo: le ragazze nel prato, una coglie un fiore e il mondo dei vivi letteralmente si squarcia, e lei viene trascinata in quella che, pensando al mondo di Marceline the Vampire Queen di Adventure Time, chiamerò la Nightosphere. Un mondo oscuro, abitato da spiriti di morti, senza erba, alberi, fiori, niente, solo penombra, o cupa tenebra.
Una volta sottoterra Persefone compie un secondo errore fatale e vegetale: mangia alcuni chicchi di melagrana. E il destino di chi consuma del cibo nella Nightosphere è di restarci. Cioè, un conto è farci un giro, un altro farci uno spuntino, anche microscopico: sei chicchi di melagrana. In altre versioni i grani sono di oppio, le due coppe di semi si assomigliano, e l’oscurità che attanaglia Persefone diventa più comprensibile: Persefone è di nuovo stupefatta, stavolta da una droga potentissima che le scassa il cervello. Facile muoversi nelle ombre, da lì in poi. Ma io preferisco il frutto del verde melograno dai bei vermigli fior.

Cosa ci fa una melagrana agli Inferi? Certo, Ade mangia. È un dio. A che serve essere un dio se non si può bere e mangiare? Perché la Nightosphere, come la notte che le dà nome, è parte della terra, solo che è la parte sotto, quella oscura. Oscura come l’interno del nostro corpo, se nessuno lo apre. Anche la melagrana è buia, dentro, finché Persefone non la spacca per mangiucchiarne sei piccoli semi. Che grazie all’intercessione di Zeus diventerà anche il numero dei mesi in cui Persefone sarà vincolata al sottosuolo, e al suo oscuro marito: gli altri sei mesi li passerà sopra la terra, con la madre Demetra, che si era rifiutata di far fiorire i raccolti, incazzata e disperata, se la figlia non le veniva restituita.
Non è dato sapere se Persefone sottoterra si trovi bene o no. I racconti divergono. In alcuni si innamora del re della Nightosphere e accetta di buon grado di fare la regina dei morti. In altri è una delle tante donne prigioniere di un matrimonio che le ha travolte contro la loro volontà. Di sicuro non rifiuta di tornare in superficie per tutta la primavera e l’estate, quindi è evidente che fare la moglie e la regina non le basta. Anch’io amo il buio, ma se è buio sempre diventa come l’acqua per i pesci, quelli che al pesce anziano che dice «Oggi l’acqua è fresca» chiedono «Cos’è l’acqua?».
Si può vivere solo in un mondo di differenze e opposti. Voglio vedere il buio, voglio vedere la luce. Se no, non ha più senso “vedere”. Voglio saperli, annusarli, respirarli.
La mia Persefone preferita è quella del quadro di Dante Gabriel Rossetti Proserpina, versione latina del nome. Persefone guarda verso l’esterno del dipinto, sbircia un punto da cui trapela la luce, che vediamo rischiarare la parete alle sue spalle. Fra le dita bellissime stringe ancora la melagrana aperta, con i suoi semi di rubino. Il frutto spaccato somiglia a una ferita slabbrata, a una vagina: mica per niente la sensibilità dei preraffaelliti è stata criticata perché fleshy, carnale. Il viso è indecifrabile. È inquieta? È pensierosa? È cupamente inferocita? Non lo so. Potrei scrutare il quadro, che sta alla Tate Gallery, per ore. Lo guardo, miniaturizzato, sul magnete da frigo che ho comprato a una mostra sui preraffaelliti. In questo momento serve a tenere ferma una ricetta per la visita dallo psichiatra, con una data lontanissima e inutile.
Dimmi, Persefone, come va lì sottoterra? Sei pronta per riemergere? Quel piccolo tralcio verde di edera alle tue spalle, rannicchiato vicino al raggio di luce, non ti basta più? Mi sembra logico: quando sei stata strappata alla luce eri in mezzo a un prato.

Proserpine 1874 Dante Gabriel Rossetti 1828-1882 Presented by W. Graham Robertson 1940 http://www.tate.org.uk/art/work/N05064

Come me e Persefone, anche Dante Gabriel, non stava tanto bene. La data sulla tela è “1874”, ma sappiamo che l’ha dipinto per sette anni su otto tele diverse. Era un periodo complesso. Nel 1869 si era fatto convincere a riesumare la moglie morta – Elizabeth Siddall, la bellissima Ophelia di John Everett Millais che da un poster sorveglia la mia “stanza del tè”, cioè l’unica stanza della mia casa in cui ci sia spazio per sedersi e prendere il tè – per riprendersi le poesie che aveva sepolto con  lei. La modella di Proserpine è Jane Morris, moglie di William Morris, socialista, scrittore, poeta e disegnatore di tessuti: lui e Rossetti avevano affittato Kelmscott Manor, nell’Oxfordshire, come casa per le vacanze, e Dante Gabriel aveva convissuto con Jane per anni mentre William viaggiava in Islanda. Pamela Todd, in The Pre-Raphaelites at Home (2001), scrive che il quadro rappresenta il picco della sua ossessione amorosa, che era «obsessed and consumed [da Jane] in paint, poetry, and life». Forse è proprio la natura complicata di quella relazione a rendere il dipinto così ipnotico: uno sporgersi e ritrarsi dalla luce verso il buio e viceversa. Sicuramente Rossetti era un frequentatore della Nightosphere. Un uomo complicato. Faceva recuperare un manoscritto sgrovigliandolo dai riccioli rossi di una donna morta, ma abitava con un wombato, un lama e un tucano, a cui faceva indossare un cappellino da cowboy per fargli cavalcare il lama. I critici attaccavano la sua poesia, troppo “carnale”, e lui si disfaceva di whiskey e idrato di cloralio – una droga molto di moda che verrà poi spazzata via dalle benzodiazepine – distruggendosi i reni e sprofondando in una psicosi. È morto a 53 anni, sono già più vecchia di lui. Persefone è giovane per sempre nel dipinto alla Tate. Non so, vorrei poter fare sei mesi dentro il quadro e sei mesi fuori. Mi basterebbe, in questo momento.

Sprofondare, sottoterra. Con le cose che marciscono e diventano concime e diventano vive di nuovo. In un processo immemore, mica ci accorgiamo di quel che siamo stati, con le nostre molecole, i nostri atomi. Persefone lo sa. Conosce il buio, ma non ignora la luce. Sa scendere ma anche ritrovare la fessura per risalire.

In una raccolta di racconti accompagnata da belle illustrazioni in gradazioni di grigio intitolata Le cronache di Harris Burdick, Chris Van Allsburg, scrittore e illustratore di Jumanji e Polar Express (con cui si è portato a casa due Caldecott Medal), ha chiesto a quattordici scrittrici e scrittori di inventarsi dei racconti horror ispirati alle illustrazioni attribuite a un tale, appunto, Harris Burdick. Il racconto che mi ha folgorato è Le sette sedie di Lois Lowry, quella di The Giver, il libro distopico censurato da alcune biblioteche americane perché a un certo punto racconta l’eutanasia di un neonato, non abbastanza “normale” per il mondo stabilissimo e immoto che una parte di umanità ha creato e protegge a ogni costo dalla deviazione. La storia delle sette sedie esordisce da una premessa: le bambine sanno levitare. Tutte, più o meno. Lo fanno naturalmente, da neonate, ma nessuno crede ai propri occhi se le vede sollevarsi dalla culla. Siccome poi tutte crescono e dimenticano, affascinate dalla scoperta del mondo, il problema delle bambine volanti non si pone.
Ma qualcuna si ricorda, e continua a praticare in segreto l’arte di sollevarsi da terra. E una di loro in particolare, quella di cui ci viene raccontata la storia, scopre anche che ci sono sedie che più volentieri di altre si sollevano con lei. Di sedie con la propensione al volo ne scopre sette. E il racconto termina con un’immagine che, anche se l’illustrazione, delicata e potente, è tutta in una gamma di grigi, io nella mia testa vedo a colori: una donna su una piccola sedia che levita, incantata, sotto le arcate di una cattedrale gotica, coperta dall’arcobaleno di colori delle vetrate. E mentre lentamente galleggia sente «la sensazione familiare di far parte di un grande sodalizio di esseri umani di ogni parte del mondo. Erano tutte donne. Tutte loro stavano ricordando. Tutte cominciavano a sollevarsi e a librarsi per aria.»

Persefone, ricordati della sensazione familiare di essere parte di un sodalizio umano. Che dalla Nightospere, in cui periodicamente sprofonda, si libra altrettanto periodicamente, verso l’aria e la luce. Cara dea, non ti chiedo altro. Solo di ricordarti.

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2 risposte su “Stupefatta

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