And life steps almost straight

Arabella Strange | Rorschach |

Certi giorni mi sembra di essere tristissima, poi capisco che sono arrabbiata, inferocita, traboccante di un’ira furibonda: Ma mi viene più facile sprofondare nella tristezza, e confondermi. Poi seleziono nella mia playlist Adam and the Ants, e la differenza tra le due emozioni diventa cristallina. Adesso sta suonando Dog Eat Dog. «You may not like / The things we do / Only idiots / Ignore the truth.»
E mi rendo conto che in questo mondo, in questa casa collettiva che per ferocia mi ricorda la mia casa originale, quella dove sono cresciuta – che come in un presepe maledetto convive, in una distesa di casette, con tutti gli altri luoghi fisici e non in cui ho abitato – io non sono triste, sono inferocita.

Qualche giorno fa eravamo in quattro intorno a un tavolo, in distanziamento rispettoso, e chiacchieravamo. Non ci vedevamo tutte insieme da mesi. Parlavamo di tutto. Poi è saltata fuori Genova: fra qualche mese saranno passati vent’anni. Ne parlavamo come se fosse successo la settimana scorsa. Certe cose restano lì, come le piramidi, eoni di vento e sabbia le corrodono solo un pochino, le vedi sempre svettare a chilometri di distanza. Due di noi c’erano state, due no, avevano seguito la cronaca del disastro del G8 da casa. In un minuto scarso ne stavamo parlando come se ancora potessimo fare qualcosa, qualsiasi cosa, per cambiare il passato. Perché era troppo atroce.

Ho chiamato questo posto Rorschach perché non pretendo di avere una visione oggettiva del mondo: sarà sempre proiettiva. Lo so, e cerco di comportarmi di conseguenza. Senza verità assolute, mangiando la realtà e giudicandola sulla base del piacere o della nausea che mi provoca. E vent’anni fa la nausea è stata indicibile. Non sono mai riuscita a guardare per intero un video, ad ascoltare fino in fondo una testimonianza pubblica. Fa troppo male.

Sono cresciuta nel rispetto della Legge, e dei suoi rappresentanti. Non solo i Maigret, i Derrick, i Colombo, ma anche la mia educazione, persino il mio curriculum di studi mi avevano sotterraneamente convinto che l’Ordine a cui si riferivano le Forze fosse concepito per proteggermi. Avevo già tutti gli elementi per capire che così non era ma, come dice Adam, «It’s easy to / Lay down and hide / Where’s a warrior / Without his pride?» È facile tenere la testa bassa, e io non ho mai voluto essere una guerriera. Mi accontentavo di non prenderle.
Ahahahahahahahahha. Come se bastasse tener la testa bassa per non farsi menare.
Lo sapevo, ma non volevo saperlo. Poi sabato 21 luglio 2001 sono tornata a Genova perché avevano ammazzato Carlo Giuliani. C’ero stata già il giovedì, alla manifestazione dei migranti, insieme ai miei colleghi dell’ufficio Stranieri del Comune. Una giornata bellissima. Il venerdì ero a casa, e ho ascoltato la radio, e con il mio compagno ci siamo detti: ma che cazzo sta succedendo? Dobbiamo tornare!

E lì, più ancora che nella mia prima, infelicissima esperienza con il sesso, ho perduto l’innocenza. Meglio così. Sono contenta – e stomacata, e inorridita – di avere visto. Lì c’era poco da proiettare. Botte, lacrimogeni neurotossici, sfilate di mezzi blindati con robocop trionfanti che esibivano armi da guerra. Gente allo sbando, vicoli che diventavano improvvisamente trappole, cariche insensate, migliaia e migliaia di persone che incrociavo e avevano sulla faccia la mia stessa espressione smarrita e terrorizzata. Per fortuna il mio compagno aveva una formazione diversa dalla mia, e la guerriglia urbana non lo coglieva impreparato. Mi ha insegnato a scappare.

Poi per nove anni mia sorella ha avuto un fidanzato carabiniere. Un ragazzo dolce, gentile, gli ho voluto bene davvero. Dissonanza cognitiva a mille, come una campana  gigante che faceva DONG ogni volta che parlavamo.

Dovendo mettere insieme queste esperienze e la mia natura, che è gentile, e cerca sempre, istintivamente, di concentrarsi sull’unicità delle persone e non sulla loro appartenenza a un gruppo, ho capito che per me c’era una sola strada percorribile.

Se questa rivista ammazza i fascisti, vorrei che ammazzasse il fascista che c’è dentro di noi. In alcuni casi è un fascista molto grande, e occupa quasi tutto lo spazio. In altri è piccolo come una nocciolina, un calcolo renale, ma c’è. Se non lo sai è un guaio. I fascismi saltano fuori come brutti pupazzi a molla nei contesti più diversi. Ogni volta che non si considerano i deboli, per esempio. O si danno per scontati dei privilegi, senza considerare quanti siano gli esclusi. O si giudica a priori, inconsapevoli della forza bruta che il proprio giudizio manifesta. Non ti vedo, non mi soffri qui davanti, quindi non esisti. Esiste solo la mia sofferenza, la mia paura che facilmente si dissimula esprimendosi come rabbia, arroganza orgogliosa, perbenismo bigotto. Cane mangia cane, appunto. Se siamo tutti cani – cani finti, perché i cani non fanno queste cose – allora è una questione di denti.

Questa rivista parla di occhi, non di denti. È un luogo che sento accogliente, ed è pieno delle cose che mi fanno stare bene. C’è tantissima, tantissima bellezza. Energia.  E una compagnia eterogenea di gente che non conosco neanche, a cui mi sono affezionata comunque durante questi mesi condivisi. Se stai leggendo, spero che sia successo anche a te.
La bellezza non salverà il mondo, ma certi giorni salva te, o me.

E la stranezza. Dove non c’è posto per la stranezza, non c’è posto per me. La stranezza è complessità, e fa posto a traiettorie di ogni tipo, nessuna delle quali è completamente innocente. Io apprezzo particolarmente quelle a zig zag, in cui ci si corregge di continuo.

Sono antifascista. Non perché da vent’anni passo il mio giorno libero in una radio antifascista. Non perché vado alle manifestazioni per i diritti di migranti, donne, lavoratori sfruttati. Perché il fascismo è brutto. Può fingersi bello, ma è pacchiano. Soprattutto, tende a creare inquadrature che lasciano fuori troppe cose. Quando guardi un’illustrazione, o leggi un fumetto, l’inquadratura è tutto: ma sai che fuori dai margini c’è il mondo, e solo infilandoci dentro la testa e guardandoti in giro puoi dare davvero valore all’inquadratura, capire cosa ha scelto di escludere. Se il mondo fosse costituito da un solo oggetto, non ci sarebbe inquadratura, ma rappresentazione. Non è così. Già il fatto che io scrivo e tu, in questo momento, legga lo dimostra. Vorrei sporgermi per guardarti in faccia.

Tanti anni fa, nella biblioteca in cui lavoravo, si presentava spesso un grosso, grasso, informe naziskin. Si chiamava G. e mi aveva preso in simpatia. Era giovane. Era idiota. Era commovente. Un giorno ha incrociato un altro utente che conoscevo, che faceva l’educatore in un centro di aggregazione giovanile in uno dei quartieri più caotici della mia città. Si sono abbracciati. Ovvio, il mio naziskin veniva da una famiglia sfasciata. Leggeva voracemente, in quel periodo era in piena fase Lovecraft. Non perché Lovecraft avesse scritto roba pesantemente razzista in gioventù, credo non lo sapesse neanche: lui voleva Cthulhu, voleva l’orrore indescrivibile, indecifrabile di Dagon che rovescia la testa all’indietro, aggrappato alla stele nella distesa fangosa, e urla. Io a volte lo sgridavo, lo minacciavo di cacciarlo, come quando mi diceva che il Diario di Anna Frank era un libro di fantascienza. Lui tornava, e tornava. Sono sicura che è stato lui a rubare una scatola di libri nuovi, per pura voracità. Chissà che delusione quando l’avrà aperta: erano tutti albi illustrati per bambini. Era così grosso, così solo: un elefante della solitudine.  Mi raccontava della sua band scalcinata, che suonava cover degli Slayer – poveri Slayer, immagino i loro giri potenti massacrati da quei nazisti dell’Illinois.
L’ho perso di vista. Anni dopo, cercando di rintracciare un libro mai restituito, ho scoperto che era morto. Nel sonno, così. Mi sono ricordata dei suoi occhi gialli. Ho pianto.

Se potessi, vorrei che questa rivista salvasse i fascisti. Da loro stessi, dalla loro visione piccola e patetica, così crudelmente limitata. Mi accontento che salvi me, a volte, dalla mia  oscurità: «Darknesses – / Those Evenings of the Brain -» dice Emily Dickinson. Perché «We grow accustomed to the Dark – / When Light is put away -», ci abituiamo al buio quando la luce ci viene tolta. E poi è tutto un vagare, e sbattere negli alberi. Ma «Either the Darkness alters – / Or something in the sight / Adjusts itself to Midnight – / And Life steps almost straight.». L’oscurità muta, oppure siamo noi che adattiamo i nostri occhi alla mezzanotte, e la vita prosegue quasi, quasi, dritta. Cioè anche un po’ storta, e va bene così.
L’arcobaleno è nella luce, è nelle figure. Con un po’ di sforzo, nelle parole. Spero che questo resti un posto di arcobaleni. E di gente che ha il coraggio di sbattere negli alberi, pur di inventarsi una strada, annusare un sentiero.

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