La grolla: Ogni ruolo è un gioco

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[A cosa serve una redazione molto unita e giocosa se poi si rinuncia a giocare? Non lo possiamo sapere, perché facendo QUASI giochiamo un sacco, tutto il tempo. Questa volta, ci siamo dati una regola semplice – raccontare il tema del mese in poche righe o disegni, proseguendo il discorso iniziato dagli altri. Siccome siamo più conviviali che surrealisti, il nostro cadavere squisito si chiama “La grolla”, come una tazza multibecco e una pratica di consumo comune che, in questo periodo, sono più illegali del crack.]

Sono nel retropalco. Ho lo stomaco chiuso, un’ansia che mi fa respirare solo fino alla terza costola e tutte le donne del Blues di cui devo raccontare si sono fuse, nel mio cervello smarrito, in un’unica donna a cui ne sono capitate di tutti i colori. Ma Rainey, KoKo Taylor, Nina Simone e tutte le altre sono impastate in un miscuglio indecifrabile,, e dei miei fogli sottolineati non ho alcuna traccia mnemonica: vedo le parole segnate con l’evidenziatore giallo balzarmi incontro in un pasticcio illeggibile. E delle canzoni non ricordo più neanche un attacco. Le altre due musiciste, superprofessionali, mangiano rilassatissime la cena che ci hanno portato i ragazzi dell’organizzazione. Io do due morsi di pura forza di volontà alla mia pizza, e poi bevo, bevo, almeno un litro d’acqua. Poi mi viene in mente che sul palco mi scapperà la pipì. Perfetto. Mi tremano le mani. Ma so di poter contare, nel gioco di ruoli e maschere, su una personaggia che non mi ha mai lasciata in balìa di questo caos mostruoso. Io la chiamo JJ, la Performer. Non mi hai mai tradito fino ad oggi. Ma ora sono passati mesi da quando ho fatto l’ultimo concerto: si attiverà?
Salgo sul palco. I tavoli sono tutti occupati, lo vedo in modo offuscato, riconosco qualche faccia, ma sono troppo impegnata a cercare di far tornare la mia bocca a produrre saliva, o almeno un minimo di umidità.
Cominciamo, e JJ emerge, e il concerto storytelling è una bomba. Quando chiudiamo con I’m a Woman di Koko Taylor, il growl , anche quello sulla nota più alta, esce potentissimo e perfetto, come mai nelle prove. Mi muovo come un animale. Interagisco col pubblico. Mi sembra di tirar giù il cielo nuvoloso.
Scendo dal palco, e partono i complimenti, gli abbracci proibiti ma non me ne fotte nulla, abbraccerei il mondo se potessi. Le mie compagne di palco sono prese benissimo anche loro. Io respiro, respiro, e ringrazio questo pezzo di me di non avermi tradita. Perché ogni ruolo è un gioco, e JJ è una giocatrice impeccabile, avventurosa, spaccona. La ringrazio. Non ha neanche piovuto. [AS]

Ho circa quattro, forse cinque anni. Mi sveglio dall’anestesia di un’operazione alle tonsille che in quel principio di anni settanta si facevano con simpatica leggerezza. Non riesco a parlare. Ne sono terrorizzato, ma dicono che è normale dopo quell’operazione. Però gli altri bambini in camerata con me, operati con me tipo catena di montaggio, parlano tutti. Mi sembra strano. E comunque non riprendo a parlare nemmeno nei giorni successivi. Alla fine devono raccontargliela giusta ai miei genitori. Mentre mi asportavano le tonsille marce, mi hanno lesionato le corde vocali. Niente di grave, dicono, guariscono presto e riprenderò a parlare. Solo una cosa, ma tanto vostro figlio non ha mica un futuro da cantante: l’estensione della sua voce potrebbe essere compromessa.
Morta lì. All’epoca mica si faceva causa alle istituzioni per una cosa così. Andiamo a casa, e in una settimana riprendo a parlare.
Ogni ruolo è un gioco, è vero. Ma ci sono dei maledetti ruoli che la vita ti impedisce di giocare e altri a cui ti obbliga. Prendi me, per sempre negata la carriera da rockstar o da tenore, per sempre destinato al ruolo di ascoltatore e di pubblico nei concerti. Non mi lamento, ma cazzo! [BB]

Anche le mie tonsille son finite nel cestino, ma fortunatamente senza lesioni alle corde. Così il ruolo del cantante ho potuto giocarlo. E insieme a quello, verso i diciassette o i diciotto, anche quello del poseur da osteria e dell’alcolista letterato. Poi una decina di ruoli da amante e traditore, qualcuno da figlio, qualche altro da scrittore (non pagato) e da critico (non critico), ruoli da amico, da confidente, da stronzo, da cinico, da mistico, da depresso, da sceneggiatore, da comico e un milione e più di ruoli da comparsa, per chiunque ho incrociato in strada da trentasette anni a questa parte. Il solo che non mi sono ritrovato addosso spontaneamente, o almeno così credo, visto che il primo Tom & Jerry (ma forse era Supertopo), me lo feci comprare in edicola da mio nonno che ancora non andavo alle elementari, è stato il ruolo di lettore di fumetti. In quel gioco mi sono arruolato congiuntamente alla nascita. E proprio in un fumetto ho visto la più bella rappresentazione dei ruoli giocati dagli umani. Sto parlando di Asterios Polyp, quel libro straordinario. Ecco, quando David Mazzucchelli trasforma in un confusionario e appassionato pastello rosa le reazioni automatiche dell’intimità di Hana e in un glaciale e geometrico pennarello azzurro quelle di Asterios, si ha la certezza che quei ruoli non siano giocati, ma che stiano giocando i giocatori. È quando Hana, più arruffata e rosa che mai, durante una litigata con Asterios, si ritrova seduta su un divano azzurro che sembra un progetto di design in fase di lavorazione, diretta emanazione di lui, che capisci che i ruoli giocati sono in realtà giocanti. Hanno il potere di espandersi fuori di noi e di far credere, che ci crediamo o no, che sono loro quel che davvero siamo. E poi, hai un bel da fare ad appellarti ai detti popolari sugli abiti e i monaci. Quello dei ruoli è un gioco pericoloso, soprattutto per il giocatore. [FP]

La più grossa illusione è che il ruolo sia sempre dichiarato ex ante. Più spesso che no si gioca a tressette col morto, dove il morto sei tu che ti scopri nel ruolo che la partita di turno ti rivela, spesso troppo tardi per potersene andare prima che un po’ di punti, un po’ troppo, siano stati segnati. Certo la caratteristica del gioco sarebbe quella di spartirsi i ruoli, a volte di comune accordo, a volte a chi primo arriva. Il basso l’ho trovato così, era rimasto, avanzato ma non ho pensato che fosse un buon motivo, o un motivo sufficiente, per lasciar perdere. Ma non tutti i giochi sono fatti per divertirsi, né può essere il caso di vedere tutto come un gioco – le cose noiose, nocive, inutili vanno marchiate come tali, perdersi è un attimo, non ci vuole niente a trovarsi comodi e soddisfatti, accoccolati in un nido di assurdità. In un ruolo stupido hai la garanzia di poterti nascondere proprio dietro la stupidità, ma chi ci dice che il gioco non inizi a piacerti? Gli indizi si leggono ovunque e la conferma della corruttela ti arriva chiara quando persone altrimenti carine e a modino ti rappresentano esigenze di quel Moloch stordito che chiamano lavoro con una disinvoltura assoluta. Il tempo si riduce, Adorno mi guarda dal comodino e io penso a come ci starebbe, sopra, Rayuela di Julio Cortàzar…
Il ruolo è diventato quello di impilatore di libri che non finirò mai di leggere? In effetti molti anni fa già mi occupai con successo di non finire Oblomov: una dichiarazione di intenti serissima! [LC]

Ho sempre trovato rassicuranti le pile di libri nelle case, un elemento che crea immediatamente un legame tra me e i padroni di casa. Probabilmente perché sono delle cose che entrano periodicamente nella mia vita. Pile di libri e riviste, solitamente vicine al letto e che raramente vengono scalfitte, perché di solito attacchi a leggere altre cose e quei mucchi, che dovrebbero rappresentare le cose più urgenti, rimangono abbandonate inerti (Marie Kondo, non mi avrai mai!). Quando penso alle pile di libri nelle case degli altri, mi viene subito in mente la casa dove abitavano Stefano Ricci e Giovanna Anceschi, allora ancora sposati, e quella Bologna del fumetto di fine anni Novanta che, in parte, ho (con)vissuto. Molti ruoli sono passati da quei momenti, e anche cambi di direzione. Un ruolo per ogni cambio di direzione? Forse anche più di uno. E più che definirli cambi di direzione, preferisco chiamarli “zig-zag”, come fa Manoush Zomorodi, una giornalista e podcaster che ho “scoperto” casualmente in uno degli innumerevoli TedTalk che ho guardato. Mi colpì subito la sua voce, leggermente roca, e il tema di cui parlava, di come la noia potesse aiutare la creatività. Mi colpì così tanto che comprai il libro che aveva scritto (ovviamente ancora non letto e su una pila, in uno dei diversi Billi sparsi per casa), in cui aveva relazionato l’esperimento sociale che aveva condotto: aveva chiesto ai suoi ascoltatori di non usare i social media per un certo periodo e di registrare la quantità di tempo che si ritrovavano a disposizione e di come lo utilizzavano. Da allora seguo sempre le sue trasmissioni in cui spesso racconta i suoi zig-zag lavorativi e di come si possa essere imprenditori (anche di se stessi) in un modo diverso. Le sue parole, le sue interviste, le sue newsletter mi accompagnano settimanalmente e a volte mi sento tentato… tentato di fare un nuovo zig-zag e indossare (magari) un nuovo ruolo. [OM]

C’ho sempre avuto un problema, a stare dentro un ruolo per molto tempo. Sempre troppo giovane per stare con i vecchi, troppo vecchio per stare con i giovani, in ogni ambito: la politica, il lavoro. Facevo il manifestante e volevo stare a casa a disegnare i fumetti. Facevo i fumetti e soffrivo, quanto soffrivo, a non stare in manifestazione. Volevo essere Gary Groth e faccio i pacchi di QUASI da spedire a quelli che generosamente sfidano il suo sottotitolo, volevo fare il giornalismo a fumetti e mi ritrovo con una ossessione per una storia fiction che si dipanerà auspicabilmente per anni. Mi sono formato sul testo Contro la famiglia di Stampa Alternativa (e anche su Lasciate che i bimbi di Charles Manson, ma quella è un’altra storia) e ho una creatura undicenne che mi chiama «papà» e una moglie. Se ci penso l’unico ruolo che mi è rimasto sempre appiccicato addosso e non ho mai pensato di sfilarmene è quello del fumatore. Da piccino piccino mi sognavo con la sigaretta in bocca, ho cominciato tredicenne e non mi è mai venuto in mente di smettere. Un po’ pochino per attestarsi un ruolo in mezzo a questo mondo, un po’ buffe le strade che sceglie la coerenza per manifestarsi. Ah no, ecco, i fumetti. Leggere, i fumetti. Finisce così, che l’unico ruolo che abbia mai avuto e mantenuto sia quello di giocare, giocare sempre, con mondi e spazi infiniti. [CC]

Li gioco tutti. I ruoli, dico. Tutti. Per pochi minuti. Continuamente. Lo spaccone, il timido, la bestia da palco, il lavapiatti, il tipo spaventato prima di un intervento chirurgico, il malato, l’ipocondriaco, lo spaccone, lo sfiduciato, il vaccinato, prima dose, seconda dose, l’ubriaco, il marito, l’amante, il fedifrago, il drago, il coniglio, il lettore, l’autore, l’antipatico, il comico, il prestigiatore, lo spettatore, il manager, l’opaco sottoposto, il soldato, l’obiettore, il disertore, lo sdraiato sul lettino per la psicoanalisi, lo spettatore, lo spettacolo, il cuoco, il commensale, il cibo, il venditore, l’acquirente, la merce, STOP
STOP
Li gioco tutti. E l’elenco potrebbe continuare per ore, senza problemi, senza dubbi.
Philip Dick, una delle prime volte che l’ho incontrato, era l’autore di un saggio (tradotto da Stefano Benni, se non ricordo male) che Goffredo Fofi aveva voluto su “Linea d’Ombra”. Era la metà degli anni Ottanta del secolo scorso e di Dick si trovava pochissimo: qualche “Urania”, qualche Nord e poco più. Uno scrittore morto da poco, diventato oggetto di culto e devozione perché da un suo romanzo era stato tratto il film che ci aveva fatto brillare, Uno scrittore di cui sapevo quasi niente, che mi spiegava, con precisione chirurgica, che la realtà era l’abito di dio. E che dio, ogni volta che voleva, apriva il suo armadio e si infilava l’abito di cui aveva più voglia, in quel momento, senza alcun vincolo di coerenza. Senza dover rispettare una struttura narrativa. La sua scelta, il suo abito, imponeva a ognuno di noi di scegliere un ruolo. E, allora, era lecito cambiarlo quel ruolo, con la stessa frequenza con cui cambiavamo le mutande, giocandone di nobili o deprecabili, di gioiosi o furenti, di legali o caotici…
Eccomi qua. Donna sul palco che canta con la voce di altre donne, vittima di una tonsillectomia eseguita a cucchiaio come si serve il tiramisù, lettore di colori e astrazioni, giocatore del mondo, impilatore di libri, fumettista fuoritempo, voce fuoricampo, ultimo autore della grolla.
E tu chi sei? Ora. Qui. [PI]

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