Tove Jansson: foto di gruppo con signora e troll

Quasi | Visiting Professor |

di Felix Petruška

Non amo molto la parola “illustrazione”: suggerisce un rapporto dualistico e funzionale, e forse gerarchico, tra immagine disegnata e testo scritto; “disegno”, piuttosto, — oltre ad avere un sapore meno dimesso — mi sembra ricordare meglio che queste due qualità del segno (rappresentazione grafica e scrittura) si dipartono da un aggeggio primordiale e inestricabile che potremmo chiamare graphé. Le lettere alfabetiche e gli ideogrammi sono i disegni più duraturi e più frequentati della storia dell’arte. In millenni di distillazione hanno guadagnato eleganza e sintesi architettonica (e pittorica), conservando con discrezione la loro natura grafica, nascosta in piena vista.

Al di fuori del fumetto, che si situa cavalcioni sullo steccato tra disegno e scrittura, è consuetudine — ed è anche comodo — che un autore scelga uno solo di questi due versanti del discorso grafico. Alcuni li hanno percorsi contemporaneamente, o a passo alterno; il più grande esponente italiano di questa “stereoscopia” del segno è stato Dino Buzzati. Pochi l’hanno intrapresa con risultati eccezionali come Tove Jansson.

Raccontando la sua opera ci affacceremo indifferentemente su entrambi i lati della sua produzione, ignorando i confini di catalogazione; separare disegnatrice e scrittrice qui non avrebbe nessun senso, né utilità.

disegno di Francesco Chiacchio

Tove Jannson (Helsinki, 9 agosto 1914 – 27 giugno 2001) è stata una brava pittrice, autrice satirica, scenografa, una grande scrittrice e disegnatrice, una fumettista geniale quanto riottosa. La sua opera più famosa ruota intorno alla famiglia dei Mumin, amabili troll dalle fattezze gentili, simili a piccoli, biancheggianti e civilissimi ippopotami. Oltre ad essere gradevoli e beneducati, i Mumin sono troll multimediali: Jansson ha prodotto su di loro romanzi, libri per bambini, fumetti, opere teatrali e un libro fotografico.

L’epopea muminiana si annida ben presto nella vita dell’autrice. Il proto-Mumin all’origine di tutto prese forma negli anni Trenta; riparo fiabesco, per la giovane Tove, dal contesto angoscioso dell’Europa prebellica. Originariamente si chiamava “Snork”. Questo nome provvisorio sarà poi dirottato sulla Snorkmaiden — da noi “Grugnina” o “Adipella” —, fidanzata del troll protagonista, esteriormente simile a lui colore a parte: se il mumin è bianco, la snork è mobile (non solo cromaticamente): camaleontica, a seconda degli umori.

L’aneddotica famigliare racconta che il personaggio fu concepito nel corso di un battibecco tra Tove e suo fratello; si litigava sulla filosofia kantiana. In casa Jansson, famiglia di artisti, non ci si negava il piacere di un confronto culturale piuttosto sostenuto; il fatto  che T.J. all’epoca frequentasse le elementari non era una scusa per astenersi.

Rispetto alla forma a venire, quel piccolo troll polemico, tracciato sul muro di un capanno per ripicca (una caricatura di Kant? sarebbe affascinante, ma c’è ancora dibattito) aveva tratti più antropomorfi e meno gradevoli. In seguito la migrazione progressiva della bocca verso il naso permise la trasformazione del viso in muso; spuntarono due orecchie appuntite, e — superata una fase transitoria che potremmo definire anubiana, in cui la creaturina appariva come una silhouette lunga e scura  — le cose si fecero più armoniche. La prima apparizione pubblica avvenne negli anni Quaranta, in forma di personaggio-firma: Tove (così si firmava) aveva cominciato a disegnare vignette per la rivista “Garm”, proseguendo la professione materna.

Il nome “Mumintroll” fu preso in prestito da un babau di famiglia nato per gioco, quando, studentessa, era ospite a Stoccolma da uno zio medico. Tutto nell’opera di Jansson è autobiografia, in una forma particolare, sfacciatamente discreta.

Appena terminata la guerra iniziò a dare alle stampe i libri illustrati dei Mumin (i primi, in consonanza con i tempi, sono all’insegna dell’apocalisse, storie di inondazioni e di comete devastatrici). Ne firmerà in tutto nove. Sono racconti raffinati e vivacissimi, che esplorano i rapporti tra gli abitanti di Valle Mumin con una finezza introspettiva sempre più tagliente.

Nel 1954 un grande giornale britannico, il “London’s The Evening News”, le commissiona una strip quotidiana.

Di fare fumetti Tove, autrice dall’animo mezzo rivoluzionario mezzo tradizionalista, non ha molta voglia; l’adozione dei balloons, per esempio, viene imposta dalla testata: l’autrice avrebbe preferito delle didascalie demodé, à la Signor Bonaventura. Lo sforzo janssoniano (ai testi la accompagna il fratello Lars) produce un enorme successo di pubblico, e un serio burnout per l’autrice: negli anni Sessanta, stremata, affiderà in toto il fumetto a Lars, disegnatore a sua volta notevole.

dusegno di Marco Corona

A dispetto del suo umore antifumettistico — forse anche grazie ad esso — l’approccio di Tove Jansson al medium è rinfrescante e inventivo: usa con sapienza ritmo e cerimoniali del fumetto periodico, giocando da subito con cliffhanger e ammiccamenti al lettore (ogni storia, per esempio, si apre ritualmente con un primo piano del sedere di Mumin, rotondo e abbagliante come un sasso di fiume). Gioca con le cornici delle vignette, componendole con elementi diegetici (oggetti d’uso, alberi, lacrime), che assumono significati immediati e divertenti; semplifica il suo stile grafico senza impoverirlo: il tratteggio fitto viene sostituito da un efficacissimo uso del retino, che non ha davvero nulla da invidiare per modernità e nitore pop ai più grandi cartoonist contemporanei d’oltreoceano.

Intorno a questo periodo la morbidezza del disegno di Jansson cede il passo a una maggiore tensione, e il suo tratto raggiunge un particolare, modernissimo (dis)equilibrio che rimarrà più o meno costante nella produzione muminiana a venire. Il lascito di lungo corso di questo stile non è indifferente: anche se i Mumin non hanno mai raggiunto una diffusione mainstream al di fuori dell’area nordico-anglosassone e di quella giapponese — al loro primo adattamento animato lavora anche Hayao Miyazaki, e nel suo Totoro si può ravvisare una certa impronta janssoniana —, la sintesi grafica accattivante ed evocativa dei suoi disegni è stata raccolta diffusamente. Per esempio, è difficile pensare che non abbia influenzato il character design e il tono generale della bellissima serie animata anni Dieci “Over the Garden Wall” (che sia avvenuto in modo consapevole o meno è un discorso a parte, che riguarda il modo estremamente fertile ma caotico con cui le immagini circolano dagli anni Duemila in poi).

I disegni di Jansson sono percorsi da una carica elettrica percepibile anche all’osservatore più distratto. È il risultato di un tratto raffinatissimo, nervoso e tonico (la sua linea sottile è un prodotto tardivo della grande stagione dell’Art Nouveau e della Secessione Viennese, lo stesso stile che attraversa il lavoro del tedesco Karl Arnold, dell’italiano Sto e dello statunitense Rea Irvin), ma non solo: al di sotto dell’armonia prodotta dalla sua enorme bravura tecnica, disegni storie e caratteri sono attraversati da linee di tensione profonde: dissidi, discrasie, nevrosi. Ogni cosa nelle storie dei Mumin racconta, con parole e disegni, della precarietà di ogni punto di equilibrio. In questi boschi nordici anche gli ippopotamini levigati racchiudono cuori d’istrice; leggere queste storie produce un gradevole solletico percettivo, la sensazione di guardare in un prisma dalle rifrazioni diseguali: un occhio vede i Barbapapà, l’altro Ingmar Bergman. 

Contrasti: una linea spezzata disegna il muso pieno di riprovazione di una filifiocca vicina di casa dei protagonisti. Si tratta di tutt’altra sottospecie di troll: nevrotiche, integrate e performative (non si sono mai osservati esemplari maschi; saranno in viaggio d’affari), sono l’opposto dei Mumin, che quanto a finalismo e imprenditorialità latitano piacevolmente. Magre, aguzze, verticali, di fronte a questi irrequieti mustelidi antropomorfi la rotondità dei Mumin fa pensare a quella di dolci idoli precolombiani. Il racconto delle tensioni tra la vita bohémien della famiglia Jansson e la società finlandese del suo tempo risuona in questo semplice accostamento visivo, che dai personaggi si estende agli ambienti. In “Mumin e la coda d’oro” il troll viene investito da una celebrità improvvisa; tra gli inconvenienti che ciò comporta, c’è la necessità di cambiare l’arredamento di casa: questione di status. La freddezza con cui il disegno perfetto di T.J. descrive la mobilia razionalista che invade il suo soggiorno (siamo ai livelli qualitativi di Floyd Gottfredson nelle strip di Mickey Mouse, quindi sul tetto del mondo del disegno), il contrasto tra la sintesi grafica di questo interno di desàin e il massimalismo del tratteggio fitto di aghi di pino che riempie altre pagine — quelle ambientate fuori —, sono un correlativo oggettivo della tensione, presente nella stessa autrice, tra le luci artificiali del mondo novecentesco postbellico e le radici muschiose del tempo antico: scomodo ma agognato, per ritrovarlo bastano pochi passi, appena fuori dall’uscio, dove il vialetto sparisce nel buio, il gelo morde il naso, e occhietti animali trapuntano il buio.

Un altro contrasto significativo: da una parte ci sono la stilizzazione netta, da tessuto stampato, i colori vivaci con cui Tove Jansson disegna e dipinge i fiori e le piante dell’estate nordica; all’opposto gli acquerelli nebbiosi, i tratteggi di brina, le ombre lunghe, le nevi, il mare ghiacciato e i cieli verdi dell’inverno. Questa dialettica stagionale può offrire spunti affascinanti (quanto arbitrari) all’impiccione in vena di esplorazioni biografiche: per esempio, per il caso visivo che abbiamo richiamato, sui contrasti che separavano la vita pubblica dell’autrice da quella intima.

Gli amori di lungo corso di Jansson furono con donne; per gran parte della sua vita dovette nascondere le proprie relazioni sotto una coltre di discrezione: per la legge finlandese la sua vita sentimentale era un’“attività criminale”, ufficialmente fino al 1971. Per quanto il sottobosco della sua quotidianità sentimentale potesse essere arredato confortevolmente (nella raccolta di racconti autobiografici “Fair play” Jansson racconta meravigliosamente i dettagli di una relazione nutrita in egual misura di buon cinema e di preservazione attenta dei propri spazi), era pur sempre il luogo di un’intimità imposta: per lei amare le sue compagne era necessariamente una questione privata, un mondo in ombra, di suoni smorzati e piccoli e grandi ostacoli quotidiani.

A questo proposito, il personaggio di Too-Ticki, introdotta in uno dei suoi migliori romanzi per ragazzi, “Magia d’Inverno” (1957), è la trasfigurazione esplicita di una figura biografica importantissima: la sua compagna di lungo corso Tuulikki Pietilä. E se la metafora proposta qui sopra può sembrare forzata (è tutta mia, non fidatevi a scatola chiusa), alcuni elementi in “Magia d’inverno” sembrano suffragarla.

Tutto il racconto si può leggere come la messa in scena del contrasto estate/inverno, un affascinante Bildungsroman sullo sfondo dell’interminabile notte nordica.

Destato da un inopportuno raggio di luna, Mumin si trova, primo nella storia dei Mumintroll, sveglio come un grillo nel cuore della stagione morta, mentre i suoi parenti e amori proseguono inarrestabili il consueto letargo. Tabacco, il suo più caro amico, il suo amico d’estate, è migrato lontano, al sud.

L’inverno nordico è mostrato come una dimensione aliena, in cui il tempo e lo spazio hanno una consistenza diversa (il sole non sorge; il mare è fermo), in cui i luoghi consueti sono trasfigurati in modo perturbante. Mumin, bestiola estiva amante del caldo e delle nuotate, di esso sa poco, e solo per sentito dire: sa che è qualcosa di oscuro, poco battuto, poco raccomandabile. Alla luce incerta della luna e di misteriose pire, assisterà alla vita quotidiana del lato nascosto della Valle. Tra le ombre, la maggiore è Morra, gelido troll informe avido del calore altrui, portatore forse di morte, sicuramente di pericolo; e non sarà la più ostile che incontrerà, prima che ritorni il sole. I primi passi di Mumin nella neve sembrano promettere un interminabile purgatorio di inospitali, scomode solitudini. E invece, attraverso l’apparizione della figura-guida di Too-Ticki, survivalista di poche parole ma benevola, si rivela un mondo dove è possibile un’intima quiete sconosciuta a chi vive di giorno. Purché, beninteso, si abbia la forza — e la spinta individualistica, importantissima nell’etica janssoniana — di sapersela cavare da soli, come un certo fiore che chiuderà la storia.

Recuperando il filo interpretativo che stavamo seguendo, la stessa metafora del gelo può essere accostata alla denigrazione di cui l’omosessualità femminile è da sempre oggetto da parte della cultura patriarcale: una tradizione che la dipinge come l’amore “sterile”, in contrapposizione alla simbologia solare associata al principio “fecondativo” maschile, è profonda e radicata con la tenacia delle idiozie antiche. In quest’ottica il romanzo propone un felice rovesciamento di questo schema ideologico, operato attraverso la conquista personale della dimensione “invernale” della vita. A perfezionamento e quadratura della metafora, azzardo l’ultima carta biografica: Tabacco, il citato amico “diurno” vagabondo, opposto tematico di Too-Ticki, è basato sulla figura reale di Atos Wirtarnen, amico ed ex fidanzato di Jansson.

Al di là della validità di un’esegesi rispetto alle mille altre possibili, il modo in cui l’autrice integra nella narrazione elementi tratti della propria esperienza (quello che ho riportato è un esempio tra molti) testimonia di un processo creativo estremamente personale ed istintivo: è come se un lessico famigliare di dimensioni da camera, ginzburghiane, avesse via via — dapprima lentamente, raccogliendo frammenti di quotidianità, poi in modo esplosivo e dirompente — prodotto una valanga, fino a generare un oggetto narrativo coerente, rotondo e universale. Ed è proprio la solidità di questo mondo a renderlo sostanzialmente immune ai tentativi di “riduzionismo biografico” come quello a cui mi sono abbandonato qua sopra.

Rimane il fatto che gli appigli per scomporre le storie dei Mumin in un ricco puzzle di allegorie personali dell’autrice sono numerosissimi. Uno per tutti quello contenuto nello sconvolgente finale beckettiano dell’intero ciclo dei troll. Se lo spirito escatologico del secondo conflitto mondiale aveva indotto Jansson a rifugiarsi nell’invenzione dei Mumin, la morte della madre — figura fondamentale nella sua vita  — produsse in lei una severa depressione, che la portò a terminare le avventure delle sue creazioni con una drasticità sorprendente. L’ultimo romanzo della serie, “Valle Mumin in novembre” (1970), è la storia dell’elaborazione di un’assenza. Per tutta la durata del libro gli abitanti della Valle aspettano i Mumin, partiti per mare: quelli che incontriamo sono comprimari, in prevalenza di secondo piano; comparse del bestiario fantastico janssoniano sospinte in scena dal vuoto lasciato dai troll eponimi. Soli su un palcoscenico autunnale, cominciano via via a trasformarsi in protagonisti, mentre il ritorno dei Mumin, inizialmente una fede sicura, scolora in una possibilità. La conclusione non offre nessun ritorno, nessun lieto fine: solo l’accettazione di una scomparsa, e il prolungamento di un’attesa senza promesse.

Sipario.

Le strip dei Mumin sono in corso di pubblicazione completa per Iperborea, in una splendida edizione ricolorata. Consiglio di integrare con qualche esemplare da bancarella di Linus, che tra anni Sessanta e Settanta presentò alcune storie dei troll in una meravigliosa traduzione, che adattava il loro ciacolare in un azzeccatissimo, amorevole toscano.

Ti è piaciuto? Condividi questo articolo con qualcun* a cui vuoi bene:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

(Quasi)