C’è stata anche una prima parte.
Forma e contenuto


Il saggio di Amy Richlin su Ovidio, di oltre trent’anni fa, non è nato dal nulla e non è finito nel nulla. Si appoggia a una tradizione critica e letteraria già ampia, che include tra le altre Virginia Woolf, Audre Lord, Angela Carter. Google Scholar gli attribuisce quasi quattrocento citazioni, è un saggio ancora ben vivo a palpitante nel mezzo dei conflitti ideologici tra diverse generazioni e orientamenti di critica femminista.


Due esempi: nel 2004 Madeleine Kahn propone con Why are We Reading Ovid’s Handbook on Rape? una lettura ovidiana collettiva in un college femminile; Stephanie McCarter nel 2021 ritraduce il libro in inglese, e rivendica come rese letterali, per esempio, assault per iniuria, forced rape per vis, femmina per female, in polemica con tutta una tradizione di eufemismi traduttivi. La sua analisi non è identica a quella di Richlin, McCarter percepisce infatti nei versi di Ovidio una sensibilità per la prospettiva della vittima, e considera una traduzione cruda e onesta l’unico modo di renderle giustizia. È una scelta discutibile e discussa, che accetta e ripropone il testo accentuandone la rappresentazione della violenza. Diversamente, già Richlin aveva riepilogato tutto un possibile spettro di approcci: «resist the text, read against the text, misread or reread the text, reject the canon of Western literature and make a new one, or end canons altogether». («resistere al testo, leggerlo contropelo, modificarlo in lettura, rifiutare il canone della letteratura occidentale e costruirne uno nuovo, o abolire il concetto di canone»). Su questa linea, si affaccia anche l’ipotesi del rifiuto del testo, una possibilità che non può evidentemente essere dismessa come ignoranza, ma che anzi è assolutamente essenziale per riconoscere la portata del dibattito.
Cosa scopriamo, invece, se indaghiamo seguendo la traccia Calvino?
Quel saggio del 1979 lo si trova ancora dappertutto. Studiato e pochissimo criticato, fa sempre scuola. Francesco Ursini de La Sapienza nel 2018 lo accosta ad altre letture ovidiane: in relazione a Calvino cita altri nove commentatori, tutti uomini (Antonello, Pianezzola, Rosati, La Penna, Kenney, Conte, Fränkel, Gadini, Stoichita) e una sola donna (Schmitz-Emans, come coautrice) e individua tre linee di interpretazione che danno il titolo al suo articolo: “Le Metamorfosi di Ovidio come poema dell’«indistinzione», dell’«illusione» e dell’«incertezza»”. Mentre Calvino esaltava in Ovidio la rappresentazione della fluidità dell’esistente in cui «tutto può trasformarsi in nuove forme» e i confini tra gli esseri si dileguano, altri interpreti vi trovano, dice Ursini, soprattutto una riflessione sull’arte come finzione, specchio e illusione (qui è Narciso, e non Dafne, la figura più emblematica). Ovvero, in una terza accezione, pongono l’accento sull’indeterminazione e sull’incertezza non solo come essenziali alla trasformazione in natura e alla creazione in poesia, ma addirittura come basi di un paradigma morale di tolleranza in cui, essendo tutto possibile e ugualmente ammissibile, siamo invitati ad aprirci a ogni variazione.
La mia obiezione non è che queste tre diverse sfumature non meritino approfondimento e studio, però: sono ancora pensabili pagine e pagine di disquisizione meta-letteraria, di raffronto capillare tra letture strutturalista e postmoderna, un trattamento della materia, insomma, che di nuovo completamente ne obliteri il contenuto? Fino al punto di elevare Ovidio a modello di empatia e modernissima apertura mentale?
Se un approccio alle Metamorfosi esclusivamente estetico o filologico è talmente dominante in Italia da sembrare scontato, mi sembra invece evidente che sottende un’implicita presa di posizione. Quale? Ci sono diverse possibilità. La più ovvia, e di carattere generale, potrebbe essere l’assunzione che il valore artistico sia una qualità politicamente neutrale (analogamente a una presunta obiettività e neutralità della scienza). Altre, più specifiche per questo testo, suggerite da Richlin, attribuiscono a Ovidio intenzioni diverse nella scelta della materia: la violenza sessuale c’è, ma… non è importante, è normale, è per scherzo, oppure sta per qualcos’altro. Non saprei dove collocare Calvino.
Sembra in ogni caso di poter visualizzare Calvino e Richlin come punti di accumulazione di due universi disgiunti di studi ovidiani: uno tutto interno alle Metamorfosi, tutto proteso a captarne, e in fin dei conti celebrarne in maniera pleonastica il valore estetico e la grandezza, l’altro dissacrante nel senso migliore del termine, che affonda, mette a nudo non senza lacerazioni anche la cruenta sostanza del libro. È necessario schierarsi? Non sono ansiosa di uccidere un autore che amo da sempre, ma non rendiamo più giustizia a Calvino stesso prendendolo sul serio e confrontandolo con un’altra prospettiva di cui – non posso fare a meno di pensare – avrebbe lui stesso riconosciuto la potenza?
Non si tratta di dare un giudizio morale su Ovidio. Seguendo la pista Richlin, si scopre che lo stupro è onnipresente nella cultura romana del primo secolo: è un tema quotidiano nelle scuole di retorica in cui Ovidio si è formato, è importantissimo nella riforma legislativa di Augusto, è descritto e rappresentato abitualmente nella letteratura, nella danza, nella commedia. Non è forse legittimo pretendere che se ne prenda coscienza leggendo le Metamorfosi oggi?
Dafne e Filomela
Dafne e Apollo sono le star, la loro storia è il singolo riprodotto in loop per secoli di questo album mitologico che sono le Metamorfosi. Compaiono infatti nel primo libro e rappresentano già molto di quanto segue.








Apollo, se ho contato bene, di crimini vari ne tenta o ne compie otto. Primo: Dafne, vedi sopra. Secondo: scoperto il tradimento della sua amante Coronide, Apollo la ammazza, lei gli rivela in punto di morte di essere incinta, quindi lui, non tollerando l’idea del proprio sacro seme ridotto in cenere, estrae il feto (sarà Esculapio) dal cadavere della vittima. Terzo: per avvicinarsi a Leucotoe, Apollo la inganna prendendo le sembianze della madre, e, rimasto solo con lei, la stupra mentre Ovidio guardone di nuovo indugia su come la paura la renda più bella («Ipse timor decuit»), poi il dio la lascia in pasto alla furia del padre che per punirla (notare la logica stringente nell’individuazione della colpevole) la seppellisce viva. Quarto: Apollo si trasforma in pastore per violentare Isse. Quinto: Apollo batte il satiro Marsia in una gara di flauto, in più, lo scortica vivo per punizione. Sesto: qui Apollo si diletta con un toy-boy di nome Ciparisso, a sua volta innamorato di un cervo che lui stesso uccide per errore, autopunendosi con la richiesta di essere trasformato in cipresso. Settimo: Apollo uccide Giacinto, altro oggetto del suo desiderio, in una gara di lancio del disco, stavolta per sbaglio, in un incidente dalla dinamica tanto convoluta quanto improbabile. Ottavo: Apollo e Mercurio violentano nella stessa notte Chione. Mercurio dopo averla fatta addormentare, Apollo invece travestendosi dalla sua balia. Lei resta incinta di entrambi e partorisce due gemelli divini, se ne vanta, viene quindi punita da Diana per la sua sicumera. Apollo, per inciso, pareggia in numero di stupri con il padre Giove, ma perde in creatività, non trasformandosi né in cigno, né in toro bianco, né in pioggia d’oro.
Che Apollo goda d’immeritata fama positiva ha a che vedere, naturalmente, con tutti i vantaggi culturali e psicologici della bellezza. A cementare questa reputazione ha contribuito Nietzsche con la sua famosa dicotomia tra apollineo e dionisiaco. Ascoltiamolo, facendo scorrere in background le immagini del paragrafo precedente: «Apollo, come divinità etica, pretende dai suoi moderazione e, per mantenerla, conoscenza di sé. Così si accompagna alla necessità estetica della bellezza l’imperativo del “conosci te stesso” e del “non troppo!”». E meno male.

Dafne, dal canto suo, ha molte sorelle di sventura. Filomela in particolare meriterebbe molta più fama. Riassumendo, perché la storia è lunga: prelevata da casa sua dal cognato Tereo per portarla a rivedere dopo anni sua sorella Procne e a conoscere il nipotino Iti, la giovane Filomela viene invece dal suddetto cognato ripetutamente violentata già sulla nave durante il ritorno. Lei giura vendetta in una forma particolare: parlare. Farà sapere a tutti del male che Tereo le ha fatto. Lui quindi la rinchiude in un casolare abbandonato e le mozza la lingua con la spada (qui: esametri virtuosi di Ovidio nel racconto della lingua mutilata che guizza e palpita). Per un anno intero, ogni tanto torna lì a violentarla, a sua moglie intanto racconta che la sorella è morta in viaggio. Filomela riesce però a far arrivare a Procne un messaggio, tessuto con un telaio improvvisato e affidato a una vecchia viandante. Le sorelle si riuniscono in segreto e apparecchiano la vendetta: uno spezzatino di carni del figlio Iti che viene offerto a Tereo per pranzo, e come dessert la rivelazione di quale cibo abbia gustato. Quando la furia di Tereo si sta per abbattere sulle sorelle, l’intervento divino ferma il massacro trasformando tutti e tre i protagonosti della storia in uccelli: Filomela in rondine, Procne in pettirosso, Tereo in upupa. Il taglio della lingua di Filomela, analogo a quello della sirenetta di Andersen (stranamente assente nella versione disneyana), è altamente simbolico e palese, ma implicitamente lo stesso succede a Dafne: un albero infatti sta zitto. Non è quindi un caso che l’ultimo gesto, muto, della donna-alloro sia un movimento della chioma, interpretato dal poeta come un assenso alle parole di Apollo, che ne fa il proprio albero sacro.


Su Filomela non si scatena l’accanimento degli artisti come su Dafne che era, nel mito, una ninfa cacciatrice e che dovremmo quindi immaginare asciutta, muscolosa, scattante, oltre a figurarcene la personalità come inflessibile e dura, se è vero che le sue compagne vengono incaricate di smembrare per punizione un certo Leucippo che l’aveva spiata nuda. Aveva la stoffa per essere un riflesso della figura di Apollo: volitiva, violenta, vendicativa. Il loro avrebbe potuto essere uno scontro quasi alla pari, a parte il vantaggio di genere e di divinità per Apollo. Ma non è così che la storia dell’arte ha voluto conservarla: è una vittima (Bernini), e viene più spesso dipinta come una danzatrice svagata dal passo incerto (Canini, Parmigianino), dal corpo morbido e grasso (Rubens), un po’ imbranata perché fuggendo perde tempo a guardare indietro (Albani) e anche piuttosto confusa perché al suo persecutore spesso getta sguardi languidi (Tiepolo, Waterhouse). Da questo punto di vista, quindi, va molto meglio a Filomela, i pittori la lasciano in pace. I pochi quadri che ho trovato la vedono tutti in azione nel momento della vendetta, uno è di Artemisa Gentileschi. Invece Elizabeth Gardner la ritrae insieme a Procne, da sorelle, prima del matrimonio, prima dello stupro, prima del taglio della lingua. Due sorelle che si sorridono e basta, prima di tutto.
Yeong-hye e In-hye
Dafne e Procne si riflettono anche nelle protagoniste de La vegetariana di Han Kang. Yeong-hye è il nome della vegetariana del titolo, una donna che, come Dafne, si trasforma in un essere vegetale per sottrarsi alla violenza, non solo a quella sessuale abituale di suo marito, ma a tutta la cruenta realtà dell’umano che le si rivela in sogni traboccanti di carne. Ha una macchia blu sulla natica che diventa il principio della sua trasformazione. A differenza di quella ovidiana, magica e rapida (ammirata per questo da Calvino), la metamorfosi in questo romanzo è lenta e dolorosa, non ha niente di sovrannaturale, è corporea. Una lenta, realistica trasmutazione, di fatto un’agonia, in parte autoinflitta in un crescendo di rinunce, distanze e rifiuti, in parte coadiuvata: il cognato della donna vede in quella macchia blu la traccia di una natura vegetale da cui è ossessionato sessualmente. A partire dalla macchia sarà lui a dipingere sulla pelle di lei un’intricata flora, a trasformare poi anche sé stesso in un groviglio di rampicanti e il proprio sesso in pistillo per penetrare la donna-vegetale e filmare l’amplesso nella realizzazione di un’improbabile opera d’arte.
In-hye, sorella maggiore della vegetariana e moglie dell’artista, vede in suo marito un abusatore della fragilità di sua sorella. Nel prendersi cura di Yeong-hye, ormai internata in un ospedale psichiatrico, a partire dal divorzio si distacca anche lei progressivamente da un contesto sociale in cui era stata prima perfettamente inserita. Si estranea e cambia. La metamorfosi in uccello di In-hye avviene in un sogno del figlio, un figlio che lei sceglierà di abbandonare (analogamente a Procne che sacrifica il proprio figlio Iti alla vendetta contro suo marito). Il bambino le racconta il suo sogno: un uccello bianco nel cielo, da cui si allungano due mani verso di lui e una voce: «Sono la tua mamma». Se In-hye inizialmente tranquillizza il bambino («è solo un sogno»), a sua sorella ormai muta e spenta confessa che è proprio nei sogni che desidera dissolversi, sottraendosi alla necessità del risveglio. L’ultima immagine del libro è un uccello nero che vola sparendo alla vista nel sole accecante, mentre In-hye lo osserva con uno sguardo «scuro e insistente», come quello di un corvo.



Come potrebbe Amy Richlin leggere Han Kang? Si possono tentare delle ipotesi. Alcune modalità di resa dei conti con Ovidio e con i testi di una tradizione culturale complessivamente violenta e misogina provengono da Virginia Woolf: «throw them out – take them apart – find female-based ones instead» («buttarli, vivisezionarli, sostituirli con prospettive femminili»). Come Woolf opera su Filomela (Between the Acts), Angela Carter su Barbablù (The Bloody Chamber), Margaret Atwood su Penelope, così Han Kang smembra e riassembla una vecchia storia con una nuova voce. Abbiamo quindi rimodellato la narrazione e risolto il problema? L’esempio Einaudi-Calvino mostra che queste prospettive sono ancora considerate esotiche, un vezzo di genere collaterale all’essenza del testo. Una casa editrice seria non le nomina.
Ma c’è di più: Richlin caratterizza la narrazione (insieme all’umorismo, al film, all’arte figurativa) come un «discorso chiuso» privo del potenziale dirompente di «discorsi aperti» quali teoria critica, matematica, musica e arti non figurative. Fino a che punto è funzionale e produttiva questa distinzione? Davvero non possiede la narrazione un potenziale sovversivo? Non credo di essere d’accordo. È vero però che le figure sofferenti di Han Kang, così come la sposa-bambina di Angela Carter, che alla morte si sottrae, sembrano restare sulla soglia di una vera appropriazione.
A dominare è ancora l’immagine di una Dafne che agevolmente presta le sue forme sinuose a una metamorfosi istantanea, una trasformazione che la rende, morta, oggetto docile nelle mani del dio stupratore, del poeta prestigiatore, dello scultore virtuoso, del critico acritico.
2 risposte su “Calvino ti voglio bene (lo stesso) – Parte seconda”
Antonella
E’ vero che nell’antichità gli stupri commessi dalle divinità non venivano condannati, anzi velati e abbelliti con l’arte, ma non era così per tutti. Ricordiamo Euripide che nel suo lavoro Ione descrive uno stupro esattamente come uno stupro. I protagonisti sono il solito Apollo e Creusa che, davanti al tempio di Delfi, gli rinfaccia lo stupro.
A questa luce griderò / un biasimo, figlio di Leto, a te, / che il grido della cetra/ di sette corde intoni…Venisti a me, la chioma/ lucente d’oro – il grembo / di petali gialli recisi m’empivo…stringesti i polsi bianchi, / guidandomi allo strame / nell’antro ( mamma mia, mamma mia, / era il mio grido ), tu / l’atto di Cipride / sfogando nel mio letto…
Ma le porte del tempio restano chiuse, Apollo non ha niente da dire
Nina Grenzwert
Grazie, Antonella per questo contributo. Hai ragione naturalmente. Anche Ovidio è leggibile in questa chiave a tratti (ne parlo brevemente in riferimento alla traduzione di Stephanie McCarter, che gli attribuisce empatia per le vittime). Quindi sono d’accordo: non si può parlare di una generale e assoluta indifferenza nei confronti delle vittime per tutta la cultura greco-romana. Credo che sia importante allenare lo sguardo e riconoscere le diverse forme di narrazione e la prevalenza dello sguardo maschile.
Non mi sembra invece che si faccia una differenza tra uomini (mortali) e divinità maschili, cioè non credo che l’Apollo di Ovidio riceva un trattamento più indulgente per il fatto di essere una divinità. Infatti Richlin cita anche la versione Ovidiana del ratto delle Sabine nell’Ars Amatoria, dove lo stupro di gruppo (atto fondante di Roma, compiuto da uomini) è descritto negli stessi termini giocosi di molte delle metamorfosi con una certa indifferenza per le vittime. Grazie ancora!