Trattenere l’aria

Rosso Foxe | Quasiamore |

I disegni (e quasitutto) sono di Titti Demi.

Trasciniamo i piedi, scavando solchi nel terriccio. È morbido, un po’ umido. Anche se ci sporca le scarpe, godiamo della facilità con cui si riesce a scavarlo. Ci dà un senso di protezione. Ci concentriamo su quello, perché intorno è tristezza che ci cola sulle carni. Ce la siamo cercata.
Siamo allo zoo. Una camminata malinconica e annoiata ha trascinato la nostra vita fino a qui. Ci stringiamo nel cappotto. È pomeriggio e Il freddo pungente di fine febbraio tende a infilarsi tra gli strati di lana.
Sbuffiamo pensando a quale possa essere il motivo che ci ha portato qui. Non ci piace lo zoo, proprio come non ci piace il circo con gli animali. Ci sono tutti questi animali, spaventati, annoiati, puzzolenti, spesso depressi, a volte malati. Vivono in celle piccole e non hanno l’ora d’aria. Se non fosse perché sono stipati in coppia parrebbe Guantanamo. Invece così sembra proprio una abnorme arca di Noè. Un barcone clandestino, che in nome della punizione di un dio malvagio, sta deportando queste creature.
Cosa possono fare, tutto il giorno, rinchiuse in gabbia, sotto lo sguardo annoiato di perdigiorno come noi? Cosa? Far perdurare l’amore, forse. Ecco… forse è questa l’unica cosa che nobilita almeno un poco la loro prigionia. Sempre che un maschio e un femmina, qualunque sia la loro specie, possano far perdurare qualcosa di bello in una gabbia.

Ci sediamo su una panchina mortifera, proprio di fronte ai lama. Quelli ci guardano tristi e annoiati e non si scomodano neanche per venire a sputarci in faccia. Siamo lì accoccolati nella speranza che qualcosa, un fiotto di saliva, uno schizzo di sperma, una qualsiasi secrezione, ci racconti la vita, quando ci passa accanto, veloce, uno struzzo. Ci giriamo e intercettiamo il suo sguardo. È un attimo. Ha occhi grandi e ciglia lunghissime: un incrocio tra dolcezza e malinconia. Poi scompare. Anzi, no: è lì, con quelle zampone che potrebbero farmi molto male, ma non gli si vede più il capo.

Sottoterra. Come chi si vergogna. A testa in giù. Ma proprio in giù, sotto il calpestabile. Se riuscisse almeno ad alzare, con uno slancio, il corpo farebbe ridere. Uno struzzo in verticale che fa un esercizio yoga. Invece, niente: immobile, con la testa nella sabbia. Indossiamo una maschera di dolore pensando a quella volta, in terapia, quando ci hanno paragonato allo struzzo.

Ci hanno detto, mentre le nostre carni giacevano morbide su quel lettino frugale inadatto all’amore, che quella di ficcare la testa sotto terra è una delle forme di vigliaccheria che mettiamo in atto per andarcene in giro per la vita. Ci era sembrato vero. Non abbiamo controbattuto. Non abbiamo opposto resistenza. Non abbiamo aggiunto proprio niente. Abbiamo atteso che la nostra ora finisse in silenzio, come tutte le volte. Non abbiamo neanche confessato tutte le altre strategie che padroneggiamo. Non abiamo detto che sappiamo immergerci completamente in una vasca di acqua molto calda per rendere tutto ovattato: il mondo, là fuori, ci arriva dai rumori delle tubature. Oppure che ci stacchiamo, per attimi lunghissimi, dai nostri corpi, e li lasciamo lì, come involucri senza bellezza, che a vederli fanno meno ridere pure dello struzzo testasabbiato incapace di levarsi in verticale.

Stiamo smettendo di fumare, uno dei molti vizi che ci portiamo dietro, pensiamo a certe mattine in cui usciamo sul balcone col nostro caffè. Sta per iniziare una nuova giornata e la accogliamo con due, tre, quattro boccate d’aria che vorremmo pura e, invece, è così schifosa. Il sonno è stato clemente: si è portato via cinque ore di astinenza. Dormire è un buon modo per sconfiggere le dipendenze. Forse stiamo usando la nostra necessità biologica di dormire come ulteriore tattica per far fronte alla paura. Per stare a testa in giù e sottoterra, come lo struzzo, bisogna trattenere l’aria, soffocarsi o soffocare qualcosa. Se sia rabbia o un’altra emozione, ancora, non lo sappiamo.

Stare a testa in giù non fa sempre schifo. A volte ci regala una paura deliziosa. Come in quei brevissimi istanti durante i quali la spinta sempre più forte porta l’altalena a superare il punto in cui è perpendicolare al terreno. Un’altra spinta, fortissima, con il bacino ed eccoci sempre più in alto. E, solo in quel momento, quasi accidentalmente, la testa è più in basso.

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(Quasi)