Il bianco, o la ricerca dello spirito nell’abluzione

Pietro Geranzani | Trash chic |

«L’ieri dell’uomo non può mai essere simile al domani;
niente nel mondo può durare, eccetto la Mutevolezza».

Percy Shelley, Mutevolezza:

«La Vita… macchia il bianco splendore dell’eternità».

Percy Shelley, Adonais, un’elegia sulla morte di John Keats:

Il bianco, stridore su tutti i colori, bianco candore calcinato delle ossa, che sono la nostra equivalenza interiore. Rovescia la nostra fisicità ordinaria, limitante, orizzontale, ed è capace di darci l’emblema di un fatto, non già il suo simbolo didascalico, ma quel fatto individuato in tutta la sua energia: la morte, terribile, che nella bellezza del bianco permette alla forza dello spirito di non inorridire davanti alla consunzione della carne.
Il bianco è la bellezza della forza dello spirito, e il suo tentativo d’arginare la natura temporanea del nostro corpo. Le ossa bianche, ripulite, igienizzate, ricordano al corpo ciò di cui è incapace. Nella morte l’uomo sorpassa i limiti della sua natura, ma la morte dell’uomo è il divenire dello spirito.
Le ossa bianche sono l’impronta residua del luogo naturale che l’uomo, in vita, ha ingombrato.
Le ossa bianche ricordano al corpo il proprio destino.
Il bianco, stridore su tutti i colori, ossessione di purezza.
Il bianco, livore nitido della libertà desiderata dalle spoglie animali.
Il bianco costituisce l’idea assoluta della sconfitta della finitudine.
Forse.

Marina Abramović presenta alla Biennale dell’Arte di Venezia del 1997 la performance Balkan Baroque, in cui, vestita di una candida tunica bianca, seduta su un cumulo sanguinolento d’ossa di manzo, lentamente, con la pazienza di una ricamatrice, ripulisce, spazzola e separa le ossa ancora lorde della carne putrescente da quelle che ha già sbiancato, che accumula in una nuova catasta.
Fetore stomachevole della decomposizione avanzata. Lavoro osceno.
La sua fatica, il dolore fisico, l’esercizio alla sopportazione e il progressivo sporcarsi cogli avanzi marcescenti di quella macelleria, diventano forme di quell’emancipazione dal corpo che attraverso lo sbiancamento ridona la purezza ai simulacri dell’involucro. Senza questo anelito di ossessiva purificazione, l’uomo non riuscirebbe a sfuggire naturalmente alla separazione dell'”essenza” dal suo supporto naturale, che non è evento che avvenga spontaneamente in seno alla Natura, ma il risultato di un’attività dell’intelletto. La necessità di simboli sopperisce al problema irrisolto della forza di quella “potenza assoluta” che Hegel chiama “miracolosa” e che costituisce il limite della dissociazione filosofica tra Soggetto e Pensiero.
Ma questa azione di separazione, più che di pulitura, di disgregazione dell’intero, che intrinsecamente critica il concetto hegeliano di verità nella comunione dei molteplici interi, si attua nella ricerca di quel colore bianco, della purezza dello spirito, che è la somma di tutti i colori. Perciò si contraddice in sé: abluzione, cioè, trasformazione della contegnosa intimità dell’igiene in elevatissima sacralità. Sacralità come gesto catartico. Catarsi come negazione dell’avanzamento verso l’Uno che è la verità.

La “Mutevolezza” evocata da Percy Shelley è contraddizione della Filosofia della natura hegeliana, perché la Natura non è consapevole di quelle leggi, e i suoi fenomeni si susseguono meccanicamente sempre uguali. Ed è il motivo per cui l’azione di pulitura, di sbiancamento simbolico, perpetrato da Marina Abramovic, con l’ossessivo gesto meccanico, supportato dalle nenie ipnotiche sussurrate durante l’ingrato lavoro, è un gesto di penosa e inutile perseveranza. L’affidamento al valore contraddittorio della ricerca della purezza dello Spirito nel “togliere” verso il bianco, che è invece somma universale, replica il gesto di Sisifo, condannato all’eterna fatica.

Marina Abramovic pulisce delle ossa d’animale, mentre la possibilità di un’azione consapevole riguarda solamente l’uomo, poiché egli soltanto è depositario di quell’autocoscienza che lo eleva a essere vivente dotato di capacità dialettica.
L’ultima speranza di redenzione è nel concetto di differenza essenziale fra la morte dell’uomo, la quale è la morte propriamente detta, e la morte di un semplice essere vivente. La morte dell’essere naturale, a differenza dell’uomo, è legata alla legge esteriore subita passivamente.

Hegel, nell’introduzione alla Fenomenologia scrive: «Quel che è limitato a una vita naturale non può da sé andar oltre la sua esistenza-empirica immediata [o data]; ma è spinto al di là di tale essenza da altro; e questo fatto-d’esser-strappato [e-proiettato] al di là è la sua morte».
Invece, l’abuso dei simboli del bianco-puro e dell’animale-macellato (non l’umano), costituisce un cortocircuito concettuale nel quale l’illusione di somma (nella sacralità dell’abluzione-sbiancamento) è nell’azione della separazione, e la morte dell’animale non può essere che tentativo fallimentare di trascendenza.

Dunque Balkan Baroque è per me un’opera tanto affascinante quanto confusa e contraddittoria nei suoi postulati.
Come dire: non stare a pulire le ossa di un’animale, non serve a niente, né a te, né a lui. E non stare a sbiancare che togliendo roba ti allontani dalla possibilità di trovare la verità che si vede solo se unisci tutti i pezzi, e poi il bianco che ti cerchi, pulendo e grattando, è invece la somma di tutti i colori, mica cazzi.

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