Ricucire i brandelli

Boris Battaglia | La cassetta degli attrezzi |

Il secondo capitolo de La Traversata di Philippe Lançon si apre con una dichiarazione di fastidio verso gli scrittori che dicono di scrivere ogni frase come fosse l’ultima della loro vita, Come non essere assolutamente, visceralmente, d’accordo? Significa, dice Lançon, concedere troppo valore alla scrittura e troppo poco alla vita. E anche qui non si può che essere d’accordo.

In fondo sulla vita e sul suo valore, Philippe Lançon qualcosa la sa. Lo ha imparato (ce lo racconta lui stesso) il 7 gennaio 2015, al civico 10 di rue Nicolas-Appert, a Parigi.

Già.

Quella mattina stava partecipando alla riunione di redazione di “Charlie Hebdo”, ed è sopravvissuto all’attentato. Ci era passato perché dovevano discutere di un pezzo dedicato a Sottomissione, l’ultimo romanzo di Michel Houellebecq.

Esaurito l’argomento, Lançon sta per uscire, diretto verso “Libération”, il quotidiano per cui scrive, quando gli viene in mente che ha nello zaino un libro sul Jazz che deve mostrare a Cabu: una foto in particolare e c’è un motivo preciso. Anni prima, quando era morto il batterista Elvin Jones e Lançon ne aveva scritto un ricordo su “Charlie”, Cabu aveva accompagnato quel pezzo con un disegno fatto a memoria di un concerto a cui aveva assistito nel 1977, più di un quarto di secolo prima. In quel libro, Lançon ha trovato una foto di quel concerto e, incredibilmente, Jones sta suonando proprio nella posa in cui l’ha disegnato Cabu. Si trattiene ancora qualche minuto per condividere lo stupore, tira fuori il libro e cerca la pagina giusta.
Questa piccola cosa segnerà per sempre la sua vita: proprio in quel momento irrompono i fratelli Kouachi.

Philippe vede cadere tutti. Cabu, Charb e la sua guardia del corpo, Wolinski, Honorè, Tignou, poi cade anche lui, colpito da due proiettili di AK47. Ma non è morto. Finge di esserlo per un’eternità, poi riapre gli occhi e uno dei due attentatori è lì, che lo sovrasta, lo fissa, ma non lo finisce. Se ne va. Nella sua testa Lançon si chiede perché il terrorista lo abbia risparmiato, mille motivi si affastellano nella sua immaginazione. La verità è una sola, banale. I terroristi hanno dovuto darsi alla fuga. L’eternità è durata neanche due minuti. A quel punto arriva la calma, il silenzio e, in mezzo a tutti quei morti, una consapevolezza, al contempo liberatoria e dolorosa, il cui formarsi Lançon ci racconta con un’onestà che dilania, nel quinto, bellissimo, capitolo del libro: è un sopravvissuto. Poi, questa consapevolezza diventa una incombente realtà, trasfigurata dall’immagine del viso di un’infermiera. E finalmente tutto si spegne.

Al risveglio, Lançon pensa di essere uscito da un incubo, ma scopre presto di esserci appena precipitato. I proiettili che lo hanno colpito gli hanno portato via la mascella. Un quarto del suo volto non c’è più. La presa di coscienza del danno è uno dei momenti più coinvolgenti del libro. Da una parte il senso di colpa che tormenta tutti i sopravvissuti (quello così ben raccontato da Luz, altro sopravvissuto alla strage, in due libri bellissimi, Catharsis e Indélébiles), dall’altra la lancinante consapevolezza di non avere più appartenenza, di non avere più un linguaggio (senza mascella non si può parlare) e di doverselo reinventare, attraverso un lungo calvario di rieducazione, dopo la ricostruzione della mandibola.

Per chi si occupa di storie con le immagini e di storia dell’immagine, questo libro senza immagini ha paradossalmente una duplice importanza.
La prima, più immediata, è quella della testimonianza storica: le prime cento velocissime pagine sono dedicate al racconto dell’attentato a “Charlie Hebdo”, un dramma che segna una profonda cesura nel nostro immaginario, forse tanto quanto l’11 settembre 2001. Probabilmente ancora non ne abbiamo piena consapevolezza, anche perché, per la maggior parte dei lettori italiani, quella rivista e quegli autori erano, prima dell’attentato, solo un’eco lontana di un periodo glorioso e concluso: una storia, come tante. Quel momento inatteso, il 7 gennaio 2015, si è abbattuto su quella storia, proprio quella, e l’ha trasfigurata, rendendola evidente, mettendone al centro l’importanza e cambiando tutto.

La seconda cosa importante del libro, che occupa le oltre quattrocento pagine restanti, è che, proprio perché obbligato dalla necessità di reinventare il proprio linguaggio attraverso le immagini, Lançon affronta una traversata dell’immaginario fatto a brandelli (non è un caso che il titolo originale del libro, sia proprio Le Lambeau, il brandello). Quella traversata lo renderà consapevole di quanto e di cosa è cambiato, e gli permetterà di ricucire, o almeno di provarci, quei brandelli in qualcosa di sensato.

da Catharsis di Luz
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