Letargica

Domenica Puleio | Derive di Quasi |

In autunno faccio più fatica ad alzarmi dal letto.
Il suono della sveglia, spesso, instilla in me una serie non ben definita di bassi istinti, reminiscenze ancestrali insite nel genere umano.
Mi trascino fino al bagno a fatica, sbadiglio e infilo le dita nella matassa informe dei miei capelli indomiti, crespi e annodati dai volteggi sul cuscino.
Nello specchio una tizia semispettrale mi guarda con occhi cisposi… La  prenderei a sberle se solo ne avessi la forza, ma alle 6.00 è dura anche solo lavarsi i denti. Lo spazzolino si muove da solo. È elettrico: lo ha scelto per me quel genio fumoso di mio fratello che conosce il mio stato appena sveglia.

Sputo l’acqua e rivedo la tizia nello specchio. Ha il mio stesso volto assonnato, ma la sua espressione è spavalda, irritante direi; ha una sorta di ghigno troppo sicuro se paragonato alla mia innata timidezza, e i suoi sbadigli mi innervosiscono. La trovo così affettata e piena di boria, non si guarda mai, non si giudica mai, lascia che siano sempre gli altri a farlo e spera nella clemenza degli altri.
La vedo poco combattiva e dinamica, la vedo con la sua finta sicurezza attraversare le strade del giorno, fingendo di non aspettarsi mai nulla, in attesa: aspettando e guardando con speranza ogni secondo in un susseguirsi perenne fino a sera.
Sembra convinta, nel suo affrontare una nuova giornata, nel portare a spasso le stanche membra, sembra convinta di voler aprire l’armadio e tirar fuori un vestito adatto alla mattinata di noia in ufficio, tra numeri e documenti, tra telefonate e registrazioni. Odio le registrazioni, non fanno per me, a me piace inventare, sentire, allungare il tempo con pennellate di creatività; le registrazioni sembrano tutte uguali, seriali, adatte proprio alla tizia nello specchio che non vede proprio l’ora di guadagnarsi la pagnotta con gli impegni prevedibili del suo quotidiano.

Mi sciacquo abbondantemente la faccia, più che altro per avere l’illusione di liberare le narici dall’odore della notte. La tizia fa esattamente la stessa cosa, poi mi fa una boccaccia, a dimostrazione di quanto possa essere antipatica; ricambio e sorrido prima di entrare nella doccia.
Penso a tutte le volte che ci siamo incontrate attraverso la superficie liscia dello specchio, a tutte le volte che l’ho vista triste e le ho asciugato le lacrime, a tutte le volte che le sue spalle non sembravano così larghe da sopportare tanta amarezza, e a tutte le volte che non è riuscita a contenere la gioia e la rabbia. Penso a cosa potrebbe pensare la tizia di me e continuo a sorridere, certa che tanto lei sarà sempre lì, fedele come un’ombra, ad attendermi o a fingere di farlo. Lei come me. E io come lei.

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(Quasi)