Storie in fumo

Francesco Pelosi | La cassetta degli attrezzi |

Un racconto di famiglia dice che ogni domenica mattina, mio nonno e i suoi cinque fratelli si trovavano tutti insieme a casa sua. Originariamente erano in sette, ma uno di loro morì a Corfù, durante la guerra. E ora, nel benessere filo americano della fine degli anni Sessanta, i sei fratelli rimasti consumavano quel rito domenicale, probabilmente per rinnovare una convivialità contadina che la vita in città impediva loro durante la settimana. Mia nonna, che ovviamente non era invitata a quelle riunioni patriarcali, se ne stava in cucina a preparare il pranzo.
E cosa facevano quei sei uomini chiusi in quella stanza? Fumavano. Fumavano tutti e in continuazione. Fumavano e si raccontavano le loro cose. Le loro storie.
Mio padre, allora nato da nemmeno dieci anni, dice che ogni volta restava incantato a fissare l’alone grigio-azzurro che riempiva la stanza dal soffitto fino alla metà, sospeso sopra la testa di suo padre e dei suoi zii, esattamente come i balloon di un fumetto. La sensazione di trovarsi all’interno di una striscia disegnata aumentava poi guardando i volti che animavano quella riunione, tutti perfettamente identici fra loro, ma con dimensioni e forme differenti. Uno era un po’ più magro, l’altro appena più allungato, un altro più grasso, uno con le guance scavate, un altro con gli occhi sporgenti.
Insomma, quei sei fratelli erano l’uno la variazione dell’altro. Tutti seduti allo stesso modo e vestiti uguali, in camicia e pantaloni, cambiava solo quale gamba fosse accavallata sull’altra e il colore dei calzini. E a vederli lì, con quelle nuvole di fumo sulla testa, sembravano proprio Snoopy e i suoi fratelli. Sembrava di stare in un fumetto.

Il fumo e le storie sono da sempre intimamente collegati. Anche il vino, certo, ha la sua importanza, ma tra fumo e storie c’é proprio una correlazione grafica. Ti esce dalla bocca, si spande nell’aria attorno, arriva dappertutto. Mima la tua voce e la rende visibile, le dà una forma.
Tutti i grandi narratori – e quindi, se d’accordo con Alan Moore sosteniamo che il linguaggio è magia, a cominciare dagli sciamani Sioux o Lakota con la loro sacra pipa, o dagli aborigeni australiani, oppure ancora dal Don Juan di Carlos Castaneda – hanno con il fumo un rapporto privilegiato.
Aki Kaurismaki, grande regista finlandese, non fa differenza. Alla stregua di uno sciamano moderno, ha i suoi canti (il rock’n’roll, che secondo lui salverà il mondo), le sue parole segrete (pochissime, e quasi tutte precise e ficcanti, che spalancano mondi a ogni sillaba) e il suo fumo. Nello specifico, i personaggi dei suoi film fumano tutti. Ancor di più: nelle storie che racconta, chi attraversa un grande cambiamento, lo sottolinea fumando.
In Ho affittato un killer, film del 1990 che omaggia i noir francesi, a un certo punto il protagonista, Jean-Pierre Léaud (si, proprio lui, Antoine Doinel), salutista e gran lavoratore, decide di farla finita con la sua misera vita e subito dopo comincia a fumare. Sfa giù pacchetti su pacchetti, accompagnandoli con bicchierate di whisky. Ma sarà proprio quel fumo a permettergli di parlare con la venditrice di fiori dagli occhi azzurri che entra in quel momento nel bar. L’Henri Boulanger di prima (questo il nome di Léaud, qui) non avrebbe saputo aprir bocca e se la sarebbe fatta sfuggire. Ma il fumo gli ha dato la voce, come in un fumetto. E Boulanger parla, parla tantissimo adesso, così tanto che la conquista.
Anche in Ombre nel paradiso del 1986, primo film di quella che viene chiamata la “Trilogia dei perdenti”, i due protagonisti, gli attori feticcio Matti Pellonpää e Kati Outinen, si scambiano i silenzi più intensi del loro amore fumando. Tutta la pellicola in realtà ruota attorno alle sigarette. Sigarette per sottolineare momenti di comprensione, sigarette per enfatizzare la rabbia, sigarette per illuminare  solitudini. Rock‘n’roll e sigarette, sempre e comunque, a corollario di vite dignitosamente disperate. Fiabe decadenti per disillusi appassionati.   

Nel 2004 ho avuto la fortuna di assistere a un incontro con Kaurismaki e il suo secondo attore feticcio, Markku Peltola, che sarebbe poi morto anche lui di lì a poco (Pellonpää era morto nel 1995).
Eravamo in un piccolo teatro, dove subito dopo avrebbe suonato un incredibile trio finlandese di rock’n’roll. Kaurismaki e Peltola hanno bevuto birre in lattina e fumato sigarette per tutta la durata dell’incontro e nessuno degli organizzatori se l’è sentita di dir loro qualcosa. Non tanto per le birre, ovviamente, quanto per il fumo che aveva pian piano invaso tutta la sala. In quel modo, ancor più che con le sue parole tradotte a fatica – basse e strascicate, quasi occulte – Kaurismaki stava raccontando le sue storie. Come mio nonno e i suoi fratelli in quella stanza negli anni Sessanta.
Alla fine, dopo aver parlato di come decise di iniziare a fare film (un giorno, dopo esser stato pestato a sangue, risvegliatosi in ospedale, ancora vivo, si disse: «Ora è il momento di fare cinema!»), illuminò la sparuta platea con una splendida frase, uno di quei pensieri aforistici che risolvono un’esistenza. E che io purtroppo non riesco a ricordare. So solo che finiva con: «…e il tramonto è bellissimo». Credo parlasse della morte.
Fossimo stati in un fumetto, dove il linguaggio cambia di stato, e da gassoso diventa solido, e dove ho spesso l’impressione di trovarmi guardando i suoi film – e quel momento, in quel piccolo teatro, sembrava esattamente la scena di un suo film – avrei potuto recuperare facilmente quel pensiero  guardandolo nel suo balloon. Ma eravamo nella vita reale, maledizione! E quella straordinaria battuta è andata in fumo.

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