L’ultima canzone: La vita breve e innamorata di Marcel Cerdan

Boris Battaglia | Vite ammaccate |
Disegno di Paolo Castaldi

1.
Come tutte le sere in cui Edith ci canta, anche quella del 28 ottobre 1949, il Versailles è pieno. Di pubblico, di fumo, di applausi ininterrotti.
I newyorchesi adorano Edith Piaf. E quello di questa notte è stato un concerto che chi c’era ricorderà a lungo: un’intensità mai raggiunta prima. Edith è gonfia di alcol e morfina; non ci sarebbe riuscita, altrimenti, a salire su quel palco. Non stasera.
Eppure ha superato se stessa. Adesso è allo stremo. Ma il pubblico non la lascia andare, vuole ancora quelle emozioni.
«Stasera ho cantato per Marcel Cerdan, solo per lui.», dice lei barcollando, «Questa è l’ultima canzone». Così canta l’Hymne à l’Amour.

«Si un jour la vie t’arrache à moi
Si tu meurs que tu sois loin de moi
Peu m’importe si tu m’aimes
Car moi je meurrai, aussi…»

È una canzone che nessuno ha mai sentito prima. L’ha scritta di getto la sera prima su una partitura che le aveva dato da un po’ la sua amica Marguerite Monnet.
Un’esecuzione disperata, lancinante, che strappa la pelle di dosso ai presenti, che spacca le vene. Appena l’ha terminata Edith crolla sul palco, priva di sensi, come un pugile che va al tappeto.
Per qualcosa come dieci secondi il Versailles precipita in un atterrito muto stupore. Poi si accendono le luci. Edith viene soccorsa. Il pubblico esce, lentamente, in rispettoso silenzio.
Dai notiziari e dai quotidiani del mattino dopo apprenderanno che il 27 ottobre l’aereo su cui Marcel Cerdan viaggiava verso New York si è schiantato sul monte Pico, nelle Azzorre.
Non ci sono stati superstiti.

2.
Cresciuta attorno a un accampamento militare francese in una zona strategica per il controllo dell’Algeria nordoccidentale, Sidi Bel Abbes divenne presto la capitale dell’omonima provincia, nonché il quartier generale della Legione Straniera. Sede dello storico 1er Regiment Etranger.
Agli inizi degli anni venti del secolo scorso è una città fortificata, dalle vie anguste, dominata dalla caserma Vienot.
Nonostante sia una città, l’aria che si respira è quella di un fortino, con i suoi ritmi militari e le sue gerarchie. Marcel Cerdan, che qui ci è nato nel 1916, però non se ne accorge mica, anzi: quella città chiusa tra mura è paradossalmente per lui un luogo di libertà senza pericoli. Per le sue strade polverose gioca con i suoi amici alla guerra, a rifare le gesta dei legionari. Ci resta male quindi, quando suo padre decide che per crescere i suoi cinque figli è necessario cambiare città e trasferisce  tutta la famiglia a Casablanca. Gli è stata offerta l’opportunità di gestire una sala da ballo nel quartiere Med Sultan, lo stesso quartiere dove Michael Curtiz ambienterà il Rick’s Cafè, e non ha intenzione di lasciarsela sfuggire. Presto Marcel si ricrederà. La sua delusione diventa soddisfazione. Per la varietà umana che la abita Casablanca si rivela un luogo di scoperte continue, di stimoli e di assoluta libertà, niente a che vedere con il deserto di Sidi Bel Abbes.
Dopo la scuola ci si precipita alla spiaggia di Ain Diab, si resta in mare per ore, poi si gioca a calcio, cosa che Marcel ama follemente, e alla fine si torna a casa, dove papà, invece di preoccuparsi dei compiti, insegna a tutti, anche all’unica femmina Clothilde, i rudimenti della boxe. È un vero appassionato; ha persino allestito un ring nella sala da ballo, dove organizza incontri e dove fa esercitare i suoi ragazzi.
Forse esagera. Marcel non ha ancora otto anni e già combatte pubblicamente su quel quadrilatero.
Marcel ama il calcio, tanto, ed è un ottimo mediano, probabilmente avrebbe un futuro. Ma suo padre ha visto in lui il pugile. In effetti neanche adolescente ha già una tecnica pazzesca. È un vero talento. Così nel 1932, a sedici anni, esordisce nel professionismo. Pesi Welter.

3.
Parigi comunque non lascia scampo. Anche se arrivi da una città bella e incasinata come Casablanca. Parigi è qualcosa di più e ti innamora. La prima volta che Marcel Cerdan appoggia la sua valigia sulla banchina della Gare de Lyon, è accompagnato da Loucien Roupp. Sono appena arrivati da Perpignan, dove Roupp, fraterno amico di suo padre, lo ha allenato per quasi sei mesi nella sua palestra. Qui in Marocco ormai è sprecato, gli aveva detto il padre, vedi cosa riesci a farne là in Metropole. Adesso, sono qui, arrivati dal capoluogo dei Pirenei orientali nella capitale, perché Loucien è convinto che sia arrivato il momento di fare sul serio. Siamo a metà del 1937. Marcel ha 21 anni ed è effettivamente un fenomeno. Sarà che ha cominciato a tirare di boxe così presto, sarà che ha un talento innato, ma riesce a capire dai movimenti dei suoi avversari le loro intenzioni, non perde tempo e non gli lascia scampo, li previene e con una serie di ganci corti e stretti sulla mascella li sbatte al tappeto. Per quella sequenza di ganci implacabili in Marocco l’hanno soprannominato Bombardiere. Tra Marocco e Algeria non c’è più nessuno che possa reggere il confronto con lui. Per fare sul serio, per puntare ai titoli che contano, il territorio metropolitano, e soprattutto Parigi sono una tappa obbligata. Come ha fatto l’altro grande campione marocchino, Omar Kouidri.
Adesso Marcel è qui. Deve fare la strada necessaria per sfidarlo e contendergli il titolo nazionale dei welter che Kouidri ha da poco strappato a Charles Perrot.
Cinque incontri consecutivi tra l’ottobre ’37 e il gennaio ’38 alla Salle Wagram di Parigi. Cinque vittorie fulminanti.
Così il 21 febbraio del 1938 proprio a Casablanca allo stadio Philip, i due campioni marocchini si contendono il titolo francese di pesi welter. Lo stadio scoppia di gente, Sembra che tutta Casablanca sia venuta a vederli. E Marcel vince.
Nove mesi dopo manterrà il titolo, stavolta a Parigi, sempre contro Kouidri al quale aveva concesso la rivincita.
A questo punto la strada verso il titolo Europeo era spianata.
Il titolo lo deteneva l’italiano Saverio Turiello. Pugile funambolico, soprannominato La Pantera milanese, nonostante fosse già stato sconfitto una volta da Cerdan, quella sera del 3 giugno 1939 al Vigorelli di Milano lo sottovalutò e giocò tutto d’impeto, finendo ripetutamente sotto la sequenza di  cortissimi ganci sinistri di Cerdan. Perse ai punti.
Il pubblico milanese, infuriato per la sconfitta del proprio beniamino contestò il verdetto dei giudici, e la serata finì in rissa, con sedie divelte, contusi e feriti. Per sfuggire alla rabbia dei tifosi Cerdan e il suo manager dovettero andarsene di nascosto.
Comunque a soli 23 anni Marcel è campione europeo dei welter.
Tutta la stampa di Francia lo definisce ormai Il Bombardiere marocchino. Lui pensa già all’America e al titolo mondiale.
Ma a settembre scoppia la guerra.

4.
Marcel viene richiamato alle armi. Combatte in marina contro i nazisti, però la guerra non dura molto.  Il 14 giugno 1940 i tedeschi occupano Parigi e il 25 dello stesso mese viene firmata la capitolazione. Nei quattro anni dell’occupazione combatte più di ventitré incontri (li vince praticamente tutti e buona parte delle borse che vinceva le versava alla resistenza) e difende il titolo una volta. Il 30 settembre 1942 a Parigi al Velodrome d’Hiver, contro lo spagnolo Jose Ferrer.
Ferrer è un fervente franchista con simpatie naziste e indossa sempre un accappatoio con ricamata sopra una gigantesca svastica. Quando la vede Cerdan va su tutte le furie. Contrariamente alla sua solita tecnica, si butta d’impeto, già dal primo round, sullo spagnolo. Niente giochetti con le sue sequenze corte. Lo massacra di colpi. Per cinque riprese consecutive lo manda al tappeto. Alla sesta ripresa Ferrer getta la spugna.
Gli ufficiali tedeschi vorrebbero Cerdan a cena da loro, ma lui declina l’invito e la sera stessa prende il primo treno per Marsiglia, da dove si imbarca per Casablanca. Qui, nel gennaio del ’43 si sposa con Marinette Lopez.
Nel maggio del ’43, terminata la campagna del NordAfrica e cacciate le forze dell’Asse, gli americani organizzano svariati incontri di boxe. Così a ottobre Cerdan incontra a Orano il G.I. Larry Cisneros, considerato uno dei migliori cinque pugili mondiali, e lo abbatte alla sesta ripresa. Due mesi dopo, lo incontra di nuovo per la rivincita, ad Algeri, e l’americano non resiste cinque round. Agli inizi del ’44  partecipa ad Algeri a un torneo interalleato e manda al tappato in poche riprese tutti i suoi avversari.
È diventato il terrore dei marines.
La notizia suscita molto interesse negli Stati Uniti.
Tra l’altro, per questioni di peso, ha dovuto cambiare categoria. Nel secondo torneo interalleato combatte (e vince) come peso medio.

5.

«Amore mio,
non puoi nemmeno immaginare tutta la forza con cui ti amo.
Dio se ti amo! Mio adorato!
Vorrei trascorrere tutto il mio tempo inginocchiata davanti a te a guardarti, a servirti, ad amarti, ad appartenerti, a non avere che te nei miei occhi, non toccare che te, non vivere se non per te, che amo, amore mio.
Io.»

6.
Appena ne avevano l’opportunità, liberi dai propri impegni americani, Edith e Marcel si rifugiavano a casa di Irene deTrebert, amica di Edith, e passavano tutto il tempo a fare l’amore davanti alle ampie finestre che davano sul Williamsburg Bridge.
È il 1949. Giugno sta finendo. È l’ultimo giorno che passano insieme. Edith deve riprendere la sua tournee, che durerà fino alla fine dell’anno, e Marcel deve tornare a Parigi. Reduce dall’incontro con Jack La Motta, a Detroit, dove ha lasciato il titolo mondiale dei medi nelle mani del Toro del Bronx. Ha perso, ma torna  a casa ad allenarsi per la rivincita.
Stanno facendo l’amore. Disperatamente, come sempre. Nello sguardo di Marcel la preoccupazione di non stringere troppo con quelle sue braccia l’esile corpo di lei. Quasi avesse paura di spezzarla. Nello sguardo di lei il desiderio di farlo entrare dentro di lei completamente, quell’uomo così semplice e così forte, come nessuno dei suoi mille amanti intellettuali è mai stato. Costasse anche il rischio di esserne spezzata.
Fuori diluvia.
Come quando si sono conosciuti. A Parigi, nell’autunno del 1946, al Club des Cinq, a Montmartre. Dopo un recital di Edith. Sembrava l’occasione di una notte, come le tante che entrambi avevano già avuto.
Invece.
Fu una storia che non sarebbe finita mai.
I trionfi di Edith negli Stati Uniti. Le vittorie di Marcel, fino al titolo mondiale NBA dei pesi medi conquistato contro Tony Zale e poi difeso contro Dick Turpin. Tutto passava in secondo piano: contava solo il loro desiderio di stare insieme a fare l’amore.
Come adesso.
Il dolce contrasto del dolore causato ancora dai colpi di La Motta e il piacere che gli sta provocando il corpo di Edith, non ha eguali sulla terra, per Marcel. Nemmeno il sole di Casablanca e le carezze di Marinette lo ritemprano così.
Quando Edith gli dice: promettimi che tornerai presto qui da me, prima che finisca la tournee. Lui le risponde che certo, tornerà appena possibile, sicuro prima della data della rivincita con La Motta fissata per dicembre.
Per questo il 27 ottobre è sul volo Parigi- New York.

7.
Quando Edith Piaf muore, il 10 ottobre 1963, non ha ancora compiuto 48 anni. Ne dimostra almeno venti di più. C’è quasi da meravigliarsi che il suo corpo esilissimo, devastato da una gravissima artrosi deformante, abbia resistito così a lungo alle incredibili dosi di alcol, tabacco, morfina, eroina e farmaci vari cui lei lo sottoponeva. In fase crescente, dalla morte di Marcel Cerdan, avvenuta 14 anni prima.
Una delle cose più belle che la loro (mai estinta) storia d’amore ci ha lasciato, oltre a due canzoni che ti spaccano le vene (Hymne à l’amour e Mon Dieu), è il loro epistolario. Edith obbligava Marcel a scriverle, e per lui scrivere, tenere in mano la penna, era una sofferenza più grande che prendere cazzotti in faccia; ma lo faceva lo stesso: per lei.
E lei faceva una cosa bellissima. Le sue lettere le firmava tutte MOI.
Che non è IO e non è ME. Perché in francese il me può essere usato in funzione di pronome personale soggetto, ma non perde la sua funzione di pronome personale complemento.
Ed è bellissimo chiudere una lettera all’amato (anche all’amata, solo che qui lo faceva Edith) così: io, che mi completo in te.
Ma con un monosillabo. Che schiocca come il gancio sinistro di Marcel.
Non c’è bisogno di altro.

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