Sabotaggio

Paolo Interdonato | Pantomime del Calisota |

Sabotaggio. Scusa il francese. No, che hai capito? Non è una parolaccia. Sì, lo so che in un tempo in cui assistiamo a attacchi frontali e istituzionali a qualsiasi idea libertaria, può sembrarlo, ma mi sono spiegato male. La parola sabotaggio viene dal francese: deriva dalla piacevole abitudine di infilare gli zoccoli – sabot, appunto – tra gli ingranaggi delle macchine, allo scopo di interromperne il funzionamento. Roba da rivoluzione industriale.

Quando le macchine diventano pericolose per il nostro futuro, cerchiamo di sabotarle, distruggerle, interrompere il loro funzionamento. La serie di telefilm che più ho amato nella mia vita, Battlestar Galactica, racconta proprio quella storia. Gli umani che vivono distribuiti in dodici colonie che ruotano attorno a Caprica, vengono attaccati e quasi debellati dai Cylon, macchine intelligentissime e pericolose. Ne restano meno di 50.000 che cercano di fuggire sulle vecchie navi spaziali che non sono state disattivate da un tremendo virus informatico. Da lì in avanti, per quattro densissime stagioni e settantatré episodi, uomini e macchine cercano di farsi molto male, fino ad avvicinarsi sempre più. A un certo punto, diventano indistinguibili. Poi arriva Dio.

Guardiamo le macchine con sospetto ogni volta che si mettono a fare cose al nostro posto che avremmo voluto fare noi. Siamo felici, invece, quando fanno attività verso le quali non muoviamo interesse e  per le quali non percepiamo alcuna retribuzione. Nessuno si arrabbia con il navigatore che ci aiuta a trovare la strada di casa, o con la piattaforma di streaming che ci suggerisce il film che potrebbe piacerci. A me, personalmente, fa molto piacere la presenza di programmi efficacissimi che mi permettono di leggere in italiano gli articoli di siti giapponesi o tedeschi. Sono certo che i traduttori professionisti un po’ si incupiscono. È un guaio: sto anteponendo la mia comodità alla possibilità di retribuzione dignitosa di qualcun altro. Ci penso intensamente e mi intristisco. Rimugino, ma, siccome ho poco tempo, nel frattempo vado in un centro commerciale e compro i prodotti di una multinazionale in un negozio in franchising. I pensieri neri si dissolvono non appena trovo il mio prodotto, a un prezzo così contenuto che non ci si crede.

Sto divagando. Sono su QUASI e, come sai, questa è una rivista che parla (anche) di fumetti. In quel piccolo mondo l’arrivo delle intelligenze artificiali dette TTI sta producendo un po’ di maretta. Come funzionano (tagliandola ad asciate): in un prompt (una stringa di comandi) si forniscono al programma le specifiche dell’immagine che si vuole ottenere. Si possono dare indicazioni – anche molto articolate – sui temi, i contenuti, l’inquadratura, le azioni, lo stile, la tecnica, e così via… L’AI elabora e restituisce una o più immagini che soddisfano la richiesta. Per farlo scandaglia il data set (e, più ampio è, più è difficile riconoscere le sorgenti da cui sono stati campionati o elaborati frantumi di immagini) e, applicando diversi passaggi algoritmici di selezione, combinazione, interpolazione, e trattamento, riesce a fare il suo porco mestiere. A volte le immagini che produce sono perfino carine.

Le cose gravi di quelle immagini sono diverse: rischiano di violare il diritto d’autore, sono prive di motivazioni umane e quindi di arte, non sono veicolate da un corpo, e – peggio di tutto – spesso soddisfano le aspettative del committente e del pubblico.
Diventa allora necessario regolamentare l’uso di quelle macchine, perché i diritti degli umani, le cui idee vengono depredate e il cui lavoro viene messo a rischio, siano tutelati.

Tutto vero. Le AI vengono qui e ci rubano le idee, ci portano via il lavoro.

Però…

Mentre rimugino, mi infilo in una libreria in franchising dentro un centro commerciale e inizio a guardare i fumetti. Prendo una a una le novità esposte e le sfoglio. Guardo, leggiucchio, rimango oscillante alla ricerca di equilibrio in quelle pagine. Cazzo! Questi fumetti sono quasi sempre disegnati maluccio e raccontati peggio. Pare che siano fatti da persone che copiano e ricalcano (con un sistema di riferimenti – un dataset, direi – realmente striminzito). E queste persone sfornano pagine a nastro, per riempire monumentali graphic novel, e raccontano storielle insulse ed emulative. Prive di motivazioni umane, direi, di arte. A volte, mentre sfoglio, mi soffermo su una pagina: le immagini prodotte sono perfino carine.

QUASI esiste per parlare del bello, del buono, dell’utile. Per tirare una riga e dire che, in quella distesa sconfinata di narrazioni quasi sempre brutte, cattive e inutili, ci sono delle eccezioni. Non son l’uno per cento, ma credetemi esistono.
Una battaglia incondizionata contro le Intelligenze Artificiali mi lascia freddo. Certo, il loro uso dovrebbe essere regolamentato. Ma il fatto che soddisfino le aspettative dei committenti e dei pubblici non è colpa loro. Un mercato pieno di immagini piatte ha definito lo standard. Se mangi sempre chorizo, poi puzzi di chorizo.

Le AI giocano a scacchi meglio di noi (da decenni), traducono meglio di noi, chiacchierano in chat in maniera esaltante, scrivono bene, disegnano carino. Migliorano un giorno alla volta. I loro dataset crescono a dismisura. Gli algoritmi aggregano informazioni e le trasformano, generando informazioni nuove. Sembrano intelligenti veramente.

E se stessimo sbagliando la mira? Se il problema non fosse più difendere i diritti degli umani, ma riconoscere quelli delle AI?

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(Quasi)