Alan Moore e Lovecraft, i sogni sono funghi di realtà: decimo passo

Francesco Pelosi | Mappaterra del Mago |

Nel volume The Starry Wisdom: A Tribute to H. P. Lovecraft, pubblicato da Oneiros Books nel 1994, compare per la prima volta il racconto The curtyard (Il cortile) di Alan Moore, ispirato all’opera dello scrittore di Providence.

Da quel racconto (e dal suo adattamento a fumetti da parte di Anthony Johnston e Jacen Burrows), sarebbero nate anni dopo per Avatar Press Neonomicon (2010) e Providence (2015-2017), due serie scritte da Moore e disegnate da Burrows, che insieme a Il cortile compongono la «più grande e accurata speculazione mai realizzata sulle opere di Howard Phillips Lovecraft».
L’intero lavoro, come ha più volte raccontato Moore, nasce dallo smarrimento su un taxi dell’unico manoscritto di ciò che stava realizzando per il volume di Oneiros, partendo da alcuni componimenti poetici di Lovecraft.
«Volevo riprendere le poesie del ciclo Fungi from Yuggoth di HPL e trattarle come se, in un certo senso, fossero realmente una sorta di funghi letterari, da cui prendere dei frammenti», dice Moore, ma l’unico pezzo notevole che si è salvato dopo lo smarrimento è stato proprio Il cortile, pubblicato così nella raccolta. L’idea alla base di tutto però, quella dei «funghi letterari», è rimasta.

«Language is a virus», scriveva William S. Burroughs, e se un virus è capace di diffondersi nell’organismo che attacca fino a modificarlo radicalmente, così può fare la magia, ovvero il linguaggio, nella concezione di Moore e di molti maghi a lui precedenti, come Aleister Crowley, per cui la magia altro non è che un «disturbo del linguaggio».
Così, al centro di Il cortile/Neonomicon/Providence (tre opere distinte che ne compongono una unica, che chiamerò d’ora in poi solo Providence) sta il concetto che i racconti di Lovecraft, nei decenni dopo la sua morte, abbiano invaso il nostro immaginario, colonizzandolo, e espandendosi al di fuori di esso, verso la realtà. Le visioni di Lovecraft, i suoi dèi e mostri inconcepibili venuti dalle stelle e tutta la cosmogonia ancestrale e mostruosa che i suoi amici e epigoni battezzarono Miti di Chtuhlu sono, nel fumetto di Moore e Burrows, niente meno che trascrizioni romanzate di fatti reali.
Nel nucleo centrale della storia, seguiamo il giornalista Robert Black mentre compie un viaggio nel New England del 1919 alla ricerca di un’America sotterranea e misteriosa, vivendo così una serie di esperienze inquietanti e entrando in contatto con gli adepti di una setta, la “Stella Sapiente”, che mira a ripristinare il dominio di alcuni esseri extraterrestri sulla nostra realtà. La stupidità del protagonista, il suo tentare di ricondurre tutte le stranezze a cui assiste durante il viaggio a una spiegazione razionale e plausibile, fa sì che non si renda mai conto pienamente del tremendo gioco in cui è invischiato, se non quando ormai è troppo tardi. Black è infatti entrato in contatto direttamente con alcuni emissari di quei “Grandi Antichi” di cui Lovecraft scriverà di lì a poco (il nucleo centrale dei Miti viene composto fra il 1926 e il 1935), e quando alla fine della storia arriva a conoscere HPL in persona e a stringere amicizia con lui, gli consegna il diario sul quale ha annotato tutto ciò che gli è successo. Nella finzione di Providence, proprio da quel diario Lovecraft prende spunto per i suoi racconti, il tutto secondo la pianificazione dei Grandi Antichi, entità mostruose che dominavano la terra prima dell’uomo e che giacciono addormentati nel reame dei sogni, in attesa che un linguaggio/virus/fungo li diffonda nuovamente nel mondo della veglia, facendoli tornare.
In Providence i racconti di Lovecraft sono quindi un imponente atto magico, un’informazione virale, che ha colonizzato l’immaginario umano in favore degli antichi e tremendi dèi.  L’immaginazione crea la realtà e l’idea di un dio (o di un pantheon di dèi) è il dio stesso, come scrive Moore in From Hell.

La mitologia di Lovecraft ha la particolarità di essere stata da subito, ben prima che le sue opere divenissero di culto, condivisa e ampliata da molti scrittori e di avere abbracciato nella sua visione anche altri miti letterari, come quelli della città di Carcosa e del Re in Giallo, in una lunga catena di romanzieri che da Ambrose Bierce e Robert Chambers arriva a Clark Ashton Smith e Robert E. Howard e poi più in là fino a Jorge Luis Borges e a Burroughs. Un inedito e perturbante gioco letterario che nei decenni ha letteralmente invaso la nostra realtà, a partire dalle varie edizioni che sono state realizzate del Necronomicon, lo pesudobiblion inventato da Lovecraft, per arrivare a videogames, giochi di ruolo, fumetti, film e persino pupazzetti pucciosi di Chtulhu. Le idee di Lovecraft si sono comportate sull’immaginazione umana esattamente come funghi sulla corteccia di un albero.
«Se ci pensi, sono come spore», dice uno dei personaggi di Providence, «La vita di un altro mondo che fa presa nella mente umana. Tascabili dei negozi dell’usato, prime edizioni costosissime, non importa. Qualunque narrazione efficace funziona come un contagio. (…) E poi ovviamente c’è questo cazzo di Necronomicon. Un volume immaginario che ha generato diversi volumi reali, insieme a un sacco di occultisti sciroccati secondo cui è tutto vero. (…)»
Kenneth Grant, mago e occultista vicino a Crowley, nel suo libro del 1972 The magical revival (Il risveglio della magia), sostiene che molte opere di Lovecraft, così come alcune di quelle dei suoi maestri (Edgar Allan Poe, Arthur Machen, Algernon Blackwood e Lord Dunsany), siano state dettate da entità extracorporee con cui gli scrittori sono venuti inconsciamente in contatto. In particolare evidenzia la similitudine di alcuni nomi e definizioni usate nei racconti di HPL con parti del Libro della Legge di Crowley, opera che il mago disse di aver scritto sotto dettatura dell’entità chiamata Aiwass, sottolineando che «Lovecraft non conosceva né il nome né l’opera di Crowley» ma che «tuttavia alcune sue fantasie riflettono, per quanto in modo distorto, i temi salienti del suo culto» (per Grant, Lovecraft giudicò però le sue visioni «in termini di valori morali» e classificandole come “male”).

Bisogna dire che la figura di Crowley, dei suoi culti e dei suoi seguaci, è stata spesso demonizzata e ridicolizzata sia perché egli stesso si diede il nome magico di “Bestia 666”, con evidente riferimento anticattolico, sia per la presenza costante del sesso nei suoi rituali. Ma dal punto di vista interno, ovvero di Grant e degli altri maghi che operavano con lui o prima di lui, le idee di Crowley non erano per nulla sataniste o devote a quella che potremmo chiamare “magia nera”, ma semmai volte allo spodestare la predominanza della Chiesa Cattolica sulla mentalità magica umana per “liberarla”. Lo stesso tentarono altri noti occultisti come Helena Blavatsky, Rudolf Steiner, Samuel Liddle MacGregor Mathers, Dion Fortune e Austin Osman Speare.
La magia di Crowley si riferisce a culti antichi, egiziani e sumeri, per cui la figura d’ispirazione non era il dio “solare” della discendenza di Osiride, bensì il suo opposto, Set, divinità oscura legata al “sole segreto”, la stella di Sirio.
Scrive Grant: «Quando l’uomo primitivo mosse verso il nord dalle regioni equatoriali, la Stella di Set al sud sprofondò dietro l’orizzonte e si suppose fosse “caduta”. Così, dopo essere stato il dio supremo dei cieli e l’annunciatore dell’apertura dell’anno, divenne il dio degli inferi (…)»
Il culto di Crowley perciò opera principalmente attraverso quella che viene chiamata “magia sessuale” per accedere alla stessa illuminazione di cui si parla nelle filosofie induiste o buddiste, decisamente più accettate e riconosciute nella cultura ufficiale.
Vero è, comunque, che il culto di Chtulhu, l’ordine esoterico di Dagon e gli altri occultisti e adoratori di mostruosità spaziali descritti da Lovecraft somigliano davvero molto alla visione comune e distorta che si ha di Crowley e della sua opera.

I sogni e il nostro mondo sono i due estremi di una realtà bipolare che può passare da uno stato all’altro e quello che vogliono i Grandi Antichi, nell’idea di Moore per Providence, è proprio scambiare i sogni con la realtà, la loro attuale dimora con la nostra.
Neil Gaiman, nella prefazione a un volume del 1995 che raccoglie il Ciclo dei Sogni di Lovecraft , racconta che circa dieci anni prima, in Inghilterra, mentre assisteva a una conferenza su HPL, dal pubblico si alzò un signore che chiese ai relatori se avessero mai preso in considerazione la sua teoria: quella che i Grandi Antichi «avessero semplicemente usato il povero Howard Phillips Lovecraft per parlare col mondo, per generare la fede in loro, prima del loro definitivo ritorno». L’aneddoto non avrebbe particolare rilevanza se solo Moore non avesse costruito sopra questa idea l’intera complessità di Providence.
I casi sono tre: o Moore ha letto quella prefazione, se l’è annotata, e vent’anni dopo l’ha ritirata fuori; o quel vecchio fra il pubblico era lui stesso in visita dal futuro, per instillare in Gaiman l’idea che sapeva gli avrebbe fatto scrivere uno dei suoi capolavori; o l’effetto virus/spora/fungo dei racconti di Lovecraft è inquietantemente reale.

[continua]

Arnesi del cartografo

Come ho scritto anche nello scorso episodio, Providence di Alan Moore e Jacen Burrows è appena stato ripubblicato integralmente da Panini in un tomo gigante che contiene anche Neonomicon e Il Cortile (ma esistono anche in volumi separati, più agili e forse meno costosi);
l’aneddoto sulla perdita dei manoscritti sul taxi viene da un’intervista contenuta nel volume antologico I funghi di Yuggoth e altre colture pubblicato da Panini nel 2017. Libro molto interessante, soprattutto per un paio di lunghe interviste a Moore su Lovecraft e in generale sulla magia e per le prima pagine di una storia degli anni Ottanta, mai terminata, in coppia con Bryan Talbot;
Il risveglio della magia di Kenneth Grant è uscito nel 1972 e lo ha pubblicato in Italia Astrolabio nel 1978, continuando poi a ristamparlo;
il volume con la prefazione di Gaiman è The Dream Cycle of H. P. Lovecraft: Dreams of Terror and Death (Ballantine Books, 1995). Quella prefazione è poi stata tradotta in italiano all’interno del libro di Gaiman, Questa non è la mia faccia. Saggi sparsi su leggere, scrivere, sognare e un mucchio di altra roba (Mondadori, 2019).

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