Accoglienza

Margherita Govi | Intervallo |

Ogni mattina traccio con precisione una linea che mi spacca a metà la testa. Tiro i capelli aderenti alla cute e stringo fino a sentir male per un secondo. Metto l’eyeliner sulla palpebra come un confine fra quello che sono e quello che non posso essere. Poi la divisa: tailleur e pantaloni neri modificano la mia postura appena li indosso. Quando ho finito attacco le spillette sul doppiopetto. Una è la targhetta con il mio nome per intero in uno stampatello asettico e tre bandiere di varie nazionalità. Mi do dei pizzicotti sulle guance per renderle leggermente rosse e sorrido al grande specchio d’oro appeso nel guardaroba. Da sotto le labbra fa capolino il diastema. Non è cool come sulle copertine di moda. Sul mio viso, è il dettaglio che tradisce questo cosplay da lavoratrice. Afferro la maniglia della porta per uscire ma vedo sulle unghie lo smalto giallo che ho messo la sera prima. Lo gratto via a fatica con l’altra mano eliminandolo per sempre. L’unico segno di un’ identità scomoda che non deve trapelare. Le altre colleghe sono già nella hall. Sorridono ai visitatori con denti bianchissimi e sguardi che sembrano sinceri. Mi ricordano le madri nelle pubblicità delle merendine Kinder, i loro capelli sono elastici e morbidi e anche quando qualcuna di loro ha le occhiaie sembra una mossa studiata. Per sopravvivere ai ritmi del teatro mi immagino di essere in un film. Scatto foto immaginarie alle mie colleghe, al pubblico e all’architettura.

A volte passa Alessandra, la responsabile, a controllare che tutto vada bene. Riesco a prevedere l’arrivo di Alessandra dal gioco di specchi fra la sala barocca e l’ingresso, dove mi trovo. Vedo la maniglia girarsi e prima che lei mi si palesi davanti mi rimetto a sorridere con entusiasmo e raddrizzo la schiena in modalità sentinella. Saluto Alessandra e mi mostro il più servizievole possibile per dare un senso alle spillette sul suo doppiopetto. Il suo nome non è nel nostro stampatello anonimo, ma in un corsivo elegante pieno di grazie e affiancato dal logo del teatro.

Quando non lavoro mi vesto male, o forse dovrei dire che mi vesto comoda. Quando avevo 13 anni su MTV andava di moda un programma dove una consulente di immagine andava a casa di una ragazza con gli occhiali e le trecce e le salvava la vita sciogliendole i capelli. Alla fine di ogni puntata la ragazzina si commuoveva di fronte allo specchio e veniva restituita alla sua famiglia completamente cambiata. Anche la famiglia scoppiava a piangere come se l’avesse guarita dal cancro.

Dopo il lavoro non faccio granché, le gambe sono stanche e gonfie, di solito mi metto a letto e scrollo la home di Instagram fino a che non mi viene fame. La gente lo chiama “stalking”, ma poi chiama “stalking” anche quando qualcuno si apposta sotto casa tua e ti riempie di chiamate fino a farti impazzire. Cerco di ignorare questa analogia mentre scorro video dove una ragazza si prova dei costumi in una stanza vuota dalle pareti ben illuminate. Clicco sui filtri che ha usato per i video. Scarica, prova, visualizza altri. Giro la fotocamera e lo indirizzo su di me. Quando mi guardo nello schermo con i connotati di lei realizzo che non sono i suoi ma piuttosto quelli che un qualche programmatore grafico ha deciso potessero piacerle. Mi scatto due foto con delle labbra enormi ed uno sguardo simmetrico che non ho, solo per avere le prove che la sua bellezza è finta. Di solito quando sto per mettere via il telefono mi arriva una notifica. Spero che il paradiso sia come stare su internet, se dovrò passarci l’eternità. Non ti accorgi del tempo che passa e tutto è a una distanza di sicurezza.

Quando a lavoro dei clienti fanno i simpatici io e le madri della kinder sorridiamo o addirittura ridiamo. Loro non sanno che siamo obbligate e se ne vanno sempre compiaciuti come degli eroi che ci hanno risollevato il morale dal lavoro, ignari di avercene solo procurato altro. Lo spettacolo inizia alle nove, quando il sipario si apre e tutti i visitatori sono fermi nel buio delle loro poltrone noi possiamo smettere di recitare. Anche Alessandra abbandona il ruolo di madre severa e non ci riprende se ci trova al telefono o sedute sulla grande scalinata a chiocciola. Mi stupisco quando si avvicina e mi fa notare che non posso tenere lo smalto «messo così» e di «quel colore». Mi guardo le mani e mi accorgo che il mio tentativo di staccare lo smalto ha peggiorato le cose e lo ha reso impossibile da non notare. Fra le croste gialle spuntano le mie unghie storte e sporche, sembra che abbia scavato nel fango.
Mi scuso e dico che capisco, che lo toglierò. «Solo rosa o rosso» mi dice allontanandosi. Andrò da Alice a farmi le unghie rosa, quando deciderò di togliere questi segni di lotta. Anche lei ha il diastema, ma quello delle copertine di moda. A casa ha un fornelletto per il semi-permanente e mentre mi tiene sotto scacco, ancorata al tavolo con le mani ad asciugare inizia a parlarmi dei ragazzi che frequenta. Le piacciono tutti ma poi si strugge su quanto siano coglioni. Mi parla del sesso, a volte comico e a volte epico che ha fatto con ciascuno di loro. Rido ma non interrompo, perché mi sembra che la parte migliore della sua vita sentimentale consista nel raccontarla in modo coinvolgente agli altri. Quando vado via mi dice sempre che dovrei fare anche le ciglia, ma le do il denaro che le devo e ringrazio gentilmente.

A fine giornata quando il teatro è vuoto spegniamo le luci e chiudiamo i tendoni. È lì che inizio a sentire la mia personalità che riaffiora. So che a breve uscirò da quella divisa e potrò essere qualsiasi cosa io desideri. Solo che calcolando il tempo che mi resta al turno successivo, le ore di sonno e quelle per rientrare a casa, ho 5 ore scarse per essere chi voglio. E sono troppo stanca per ricordarmelo in così poco tempo.
Mentre raccolgo i bicchieri da sotto le poltrone vellutate e vuote mi ricordo di quando ero in Sicilia, qualche anno fa, ed eravamo entrati in un sito archeologico scavalcando la rete. Avevamo trovato una fisarmonica rotta per terra, dietro un tempio, e quando erano passate le guardie forestali ci eravamo buttati in un fosso adiacente alla strada. Nel fosso, nascosti nell’ umidità della notte, avevamo trattenuto il respiro e quando era andata via la pattuglia ne eravamo usciti vincitori. I miei capelli non avevano nessuna riga in testa, solo moltissima salsedine, e la mia pelle non aveva nessuna importanza in quel momento, se non il compito implicito di contenere la mia contentezza. Ricordo il balletto improvvisato per essere riuscita a scappare dalle guardie e le risate sconnesse che si mischiavano al rumore del mare. Mi sembra di essere di nuovo lì quando sto sorridendo alla platea vuota e compare Alessandra.

«Hai chiuso tutte le tende di sopra?»
«Sì.»
«I bagni sono a posto?»
«Certo, Alessandra.»
«Grazie, puoi andare, e mi raccomando, ricordati le unghie.»

Ti è piaciuto? Condividi questo articolo con qualcun* a cui vuoi bene:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

(Quasi)