Vieni, andiamo a svellere la memoria degli eliminati

Lorenzo Ceccherini | Il bassista non se lo incula nessuno |

Meh. Non so più quanti mesi senza scrivere niente. Quando perdi il passo, riprenderlo è la cosa più difficile. Quando riparti trovi che il tema monografico del QUASI di settembre, il mese in cui abita quel Rosh haShanah del lutulento (è fango se va bene) calendario lavorativo, ci chiama a riflettere sulla presunta natura metaforicamente escrementizia della vita stessa.

Miseria, questa rubrica potrebbe anche aver già sparato tutti i suoi colpi color marròn ma, parafrasando Eraclito, si potrebbe formulare l’ipotesi che non sia possibile, in effetti, trovarsi affondati nella stessa merda due volte, e anche, parafrasando Cratilo, che la metteva sul piano linguistico e ancora più strettamente materialistico (la molecola di merda A non è uguale alla molecola di merda B – forse i fiocchi di merda visti al microscopio sono uno diverso dall’altro, chissà), formularne una che dice, appunto, che sarebbe impossibile finirci dentro anche solo una volta.

Va bene, ho già scritto «merda» un po’ troppe volte, ma la merda non se ne risente. La merde ne garde aucun rancune.

Ma forse dovrebbe.

Perché, a furia di utilizzarla come benchmark del negativo e del detestabile le si fa veramente un torto. Facciamo un esempio. Se diciamo che il fascismo è una merda, facciamo un torto veramente pesante alla merda, perché l’escremento è naturale, è sano in quanto esprime la risultanza esterna inevitabile dell’esercizio del bisogno primario «magnare». La sostanza del fascismo, invece, non possiede la quieta nobiltà dell’escremento (evitare al corpo la tossicità di quanto non può essere processato e l’inutilità di quanto non costituisce nutrimento) ed è estremamente scorretto stigmatizzarlo in tal senso, anche se viene facilissimo farlo. Riprendendo Cratilo e pensando a un fiume marrone, per il fascismo la supposizione che sia impossibile trovarsi immersi nello stesso fascismo anche una sola volta, ha una sua ragion d’essere, anche se va espressa con tanta prudenza e con una ragionevole quota di argomentazioni, perché non è che i morti dei campi di concentramento siano trapassati per il malanimo di un certo numero di Amon Goth.

Non la merda, piuttosto, direi un cancro, per certi versi, e un apparato vestigiale, per altri. Dal combinato disposto dei due concetti deriva, necessariamente, una ipotesi patologica (ma vedremo che, no, non ci se la cava così a buon mercato).

A ‘sto punto potremmo impugnare il Popper de La società aperta e i suoi nemici e la faremmo finita in modo mediamente competente, ancorché un po’ impegnativo e apparentemente limitato a un discorso sulla conoscenza scientifica.

Ma noi non facciamo così qui.

Piuttosto, ci buttiamo nella fanga cercando di proporre, se non un metodo (e chi ce l’ha il tempo di codificarne uno?), almeno un orientamento e un’intenzione per non metterla sempre su un piano antagonistico che, invariabilmente, consente di deteriore in modo decisivo il nucleo di un discorso.

Allora, dice, te, bella fia (come ci si apostrofa da tempo immemore in Toscana per ricondurre qualcuno che alza troppo la cresta al doloroso stato comune dell’esistere), ti stai mettendo al di sopra?

Altro modo per sabotare un tentativo di portare l’attenzione sul discorso anziché sui discorrenti. Non c’è proprio modo di parlare con gli umani.

Comunque, immaginiamo di riuscirci, sapendo, oltretutto, che nessuno legge queste parole e che questo non è un discorso ma solo una proposta one-way di idee e riflessioni, tipo un Voyager sparato oltre Plutone a velocità ridicolmente bassa per riuscire a immaginare di ricevere una qualsivoglia risposta durante il tempo di ‘sta vita mortale. Gli è che non importa la risposta, il messaggio è il messaggio, e, cari alieni e consimili, ne fate quello che vi va. Sappiate però che, se anche vi professate fascisti, o se lo siete senza saperlo, questo pezzo non vi tratterà da merde, anche se quello che avete in testa è peggio della merda, ma proverà a farvi sentire un poco meno sbagliati, un poco meno spaventati, un poco meno sconfitti di quanto vi sentite da una vita intera. Il problema è dentro di voi, ma anche fuori, solo che non sono quelli diversi da voi, con la pelle più scura, con superstizioni diverse, o che, semplicemente, si riempiono gli orifizi corporei con organi genitali in combinazioni per voi inammissibili.

Il problema reale è così ulteriore, ma essenziale, che forse il vostro fervore sub-ideologico è solo un modo per tenervi impegnati a direzionare le vostre ansiette su qualcosa che è un piccolo diorama, con casine e pupazzetti, pensando così di sottrarvi alla vertiginosa incommensurabilità del non sapere perché si esiste eppure si esiste, sostanziati in questi sacchi di ciccia, ossa e tendiname vario condito da stordimento e paranoia. Ma non corriamo troppo, ve la devo menare un po’, prima di consegnarvi alla serena incurabilità di quello che viene più oltre (che è sempre meglio di dove portano le vostre puttanate, e non è che sono prevenuto, è la storia che ci fornisce abbondanti riscontri).

In preparazione al mese dell’affrontamento del Lebensschmerz qualcuno mi ha passato il misero libercolo di quel generalotto che ha pure smesso, finalmente, di fare notizia, con l’idea che potesse rappresentare un argomento da trattare. Ho scorso una ventina di pagine, mi sono fermato e ho serenamente deciso di non procedere oltre. Perché le idee rappresentate hanno la stessa qualità, in termini di profondità e forza argomentativa, di quelle dello zio fastidioso che è una vita che cercate di non frequentare o del commerciante che vi ammorba con le sue certezze mentre state solo aspettando che il vostro ordine sia pronto. Considerando inoltre che, come ha lapidariamente esposto un collega della redazione di QUASI, non è che ci siano pregi stilistici e retorici che ti facciano venire voglia di restare, diventa difficile appunto restare, specie quando hai tempo da dedicare a altro di molto meglio. Eppure, colpisce che ci siano individui motivati, o che ritengono di essere motivati (se lo compri poi ti toccherebbe leggerlo), ad affrontare un percorso di diseducazione al pensiero critico come quella che abita la misera prima ventina di pagine di ‘sto brutto accrocchio.

In più, e mi viene in mente il mio amico Gregorio quando dice che il «crocianesimo magico» è un terribile male italiano, in testa a tutto, c’è una epigrafe crociana.

Ma, dice, non eri partito a parlare di fascismo? Che c’entra ora il generalotto?

guernica
Molti “buonsensi”, propugnati in base a certi dettami, portano di frequente a Guernica

C’entra perché i recettori intellettivi ed emotivi che reagiscono a segni e sintomi fascistoidi si attivano di brutto quando parte, dopo aver oltretutto evocato, lo spirito guardiano del «Buonsenso», scritto così con la B maiuscola e tutto attaccato, il solito trenino delle «minoranze» che vogliono imporre agli altri una serie di robe. E non è un falso allarme, siamo sicuramente in una zona di sovrapposizione con almeno buona parte dei quattordici macro-criteri dell’Eternal Fascism di Eco, però il punto non è fare l’esegesi di un individuo sprovvisto di un eloquio veramente pericoloso, preferisco pagare il dazio dell’eventualità di apparire superficiale e scommettere sulla rappresentatività di quelle povere venti pagine, si tratta piuttosto di tentare di riconnettere il discorso a una vena più profonda. Che non è detto che debba essere poi raggiunta con chissà quale raffinatezza di ragionamento – nel senso, stiamo sempre lì: ignoranza e/o stupidità, più spesso tutt’e due insieme, spiegano quote rilevanti dei fenomeni di cui stiamo parlando.

Cioè, lo sappiamo che l’istruzione non è, di per sé, una garanzia di sviluppo di individui sani ma passare d’ufficio al suo opposto è una ricetta per il disastro. Nelle ricerche cialtronesche a cui riesco a dare in qualche modo luogo nei tempi da socio-antropo-psico-storico dei miei stivali, mi saltano fuori cose come un articolo uscito nel ’72, dal titolo Authoritarianism and Education: A Comparative Approach, però non c’ho l’account JSTOR quindi vedo l’abstract e poco più – o come un altro articolo di The Atlantic del 1939 intitolato Fascism and Higher Education, nel quale l’autore procede a esporre una serie di argomenti in favore di un livello di controllo governativo sull’istruzione molto contenuto, rimarcando le tristi sorti dei sistemi di quei paesi europei (Germania, Italia, Russia) contraddistinti da forti centralismi, pre-esistenti alle transizioni totalitarie, nei rispettivi modelli di gestione dell’istruzione superiore. Il secondo capoverso del pezzo recita così:

One cannot understand American institutions unless he remembers that they were established by a people emerging from mediæval despotism and acutely conscious of the dangers of totalitarian government. To borrow from Knickerbocker Holiday, they preferred the inefficiencies of democracy, «government by amateurs», to the efficiency, economies, and effective methods of dictatorship.

Ecco, non c’ho neppure voglia di scriverci su troppo, ma quando sentite il vostro compagno di banco al lavoro che dice che alla fine la Cina sotto Xi Jinping è un posto così efficiente, sappiate che ha fatto, culturalmente, un giro tipo quello degli americani – che ormai hanno eletto a «uomo forte» un ciccione (fat shaming, lo so, ma ci sta di tirargli addosso anche roba ignominiosa) bugiardo compulsivo, allucinato, narcisista e egomaniaco, crassamente ignorante, violento e volgare (quel «grab ‘em by the pussy», ma suvvia), sempre più vecchio e coglione, insomma, e tutto il resto – passando direttamene dalla lotta per la libertà, fatta da qualcun altro, a farsi abbindolare da improponibili amateurs on steroids, gente di cui, pensandoci meglio un attimo, non ti fideresti manco a mandarli a comprare il pane.

Tutto questo è già accaduto, e accadrà ancora [cit.]. Però, la massa volanica rappresentata dall’elemento tecnologico e dall’accresciuta interconnessione (il termine globalizzazione non m’è mai garbato nel suo troppo diffuso utilizzo), rende il giochino sempre più pericoloso a ogni rivoluzione. Non solo perché ci ruotano attaccate più di tredicimila testate nucleari, ma anche e soprattutto perché i pericoli mortali vengono in primo luogo dalle idee, specie da quelle cattive (e intendo malvagie) e oggi circolano che è una bellezza. L’ultimo degli imbecilli dice una stronzata e quella appicca il fuoco alla sterpaglia dei cervelli rinsecchiti.

Alla fine, le ricerche web non mi portano dove invece mi viene da andare quando si tratta di maneggiare il tema di fondo, quello della apparentemente innata vena distruttiva del genere umano – vena particolarmente perversa perché spesso veicolata attraverso mezzi che portano scritto sulla fiancata «tanto ammore». Come specie l’abbiamo visto succedere, e lo stiamo vedendo accadere, con massacri assurdi che partono con operazioni-libertà, guerre al terrore, o a nazisti drogati, con trasfigurazioni linguistiche (la neolingua è uno dei capisaldi elencati da Eco) così spudorate che sono, da subito, un aut aut plebiscitario a sottoscrivere o a rendersi nemici, seduta stante. Se il motore di ricerca, quando cerchiamo qualcosa sul rapporto tra cultura, istruzione, lingua e totalitarismo, fa il timido e ci propone, in prima pagina di risultati, roba che, se c’entra, è di cinquant’anni fa, allora è il caso di ritornare dagli «zii» che ce l’hanno raccontata per bene. Si va da Orwell e Huxley, per i romanzi, mentre per i saggi, tocca a Adorno e Fromm. Quando penso a Fromm, sto pensando a un’opera tarda, Anatomia della distruttività umana. Sono sicuro di averla già tirata in ballo (ma mi vergogno di andare a cercarla su QUASI blog edition), ormai il logoro baule da viaggio è già stato frugato e razzolato in lungo e in largo, ma continua a tornarmi alla mente – più come sensazione che per passaggi puntuali, sarebbe da rileggere. E da Adorno (e coautori) pesco il concetto della personalità autoritaria. Come al solito, senza particolari titoli di competenza, ma sulla scorta di una sensazione molto netta – quella della banalità che già la Arendt riconosceva come effetto che gli individui consegnatisi alla visione totalitaria spesso generano, in apparenza con grande convinzione e zero senso di autocritica e coerenza (Eichmann che dice che ha imparato che non si deve giurare e poi, all’udienza successiva, giura). Eichmann non sopportava l’esperienza in presenza della sostanza dei campi di sterminio, però gli piaceva un sacco fare il lavoro all’Est

Fromm con biro rossa nel ’74

L’enigma veramente fastidioso del perché masse prevalenti (terrorizzate dalle minoranze) di individui diventino, pur essendo in possesso di un livello di informazione adeguato al poter prendere coscienza delle situazioni, pienamente acquiescenti, talvolta attivamente collaborativi, rispetto a implementazioni molto vivaci, per usare un eufemismo, di piani omicidi, non lo risolve il povero scemo dello scrivente, soprattutto non bussando frettolosamente alla porta di autori vari o tentando di mostrare come le antinomie non siano tutte reperibili su linee rette – però è vero che c’è da darsi una svegliata. Uno studio del 2021, che riprende un approccio  quantitativo (test di Altenmeyer) alla misura dell’«autoritarismo destrorso» (right-wing authoritarianism) che dovrebbe essere un po’ un discendente da quello di Adorno et al., mostra come, tra le società occidentali considerate, quella americana sia nettamente più polarizzata, mentre l’Italia si bilancia in modo netto al centro – la sinistra pende a destra rispetto alla media e la destra a sinistra. Il centro una virgolina a destra ma ci siamo. Non ci si sbilancia. Tutti insieme si cade nel mezzo, e i tedeschi sono i meno destro-autoritari. Però, perché non riesco a non sentire questo senso di smottamento, questa sensazione di caduta libera, di barbari alle porte?  L’ipotesi più sensata è che si tratti di un effetto generato da una minoranza relativa, sufficientemente rumorosa e spavalda, che si ammanta di rappresentatività di una non meglio precisata maggioranza che dovrebbe corrispondere a un presunto «popolo», utilizzando fino alla nausea i pronomi noi e loro (una cosa che non riesco a tollerare sono espressioni del tipo «uno di noi»), la quale, in virtù di una interpretazione assopigliatutto di un simulacro grottesco di democrazia, dovrebbe avere diritto di censura su tutto quello che non le (come se fosse una persona con un cervello solo) va a genio. Il bello è che i suoi componenti sono tutti invariabilmente convinti di esserne elementi insostituibili, il noi è noi perché contiene l’io, non per altro, ma non dice io per pavidità, si nasconde nei ranghi – è un noi condizionato, non è ecumenico, egualitario. Presuppone che ci siano altri, devono esserci altri, malevoli, subdoli, pronti a contaminare con il fluoro i nostri preziosi bodily fluids, con i loro geni la purezza della razza, con capacità amatorie e corpi cavernosi impareggiabili e demoniaci la virtù delle donne (quelle poco di buono che quando scappano dalla cucina e la cura dei figli, corrono a darla via ai tuoi antagonisti), ecc. ecc.

Ormai l’abbiamo capito, quando qualcuno urla e sbraita dicendo che vuole proteggere qualcun altro, è probabilmente vero il contrario. Ce lo direbbe già la quantità di uomini molto «protettivi» che spediscono all’altro mondo donne che gradirebbero non essere più «protette». Ma l’aberrazione della visione si estende anche a feticci e surrogati risibili ma vissuti con il grugno tutto serioso, come la «Patria». Riguardate un attimo la ricerca di Morning Consult sul RWA: un terzo circa dei rispondenti identificabili come di destra ritiene che i rioters che hanno assaltato il Campidoglio l’abbiano fatto per «proteggere il governo degli Stati Uniti». Un aspetto tragicomico, ancorché minoritario, è che un 5% dei left-leaning pensa la stessa cosa.

Le persone sono piccole e ridicole, ma solo alcune meritevoli di poca o nessuna pietà. Il Comune di Roma, da qualche anno a questa parte, ha avviato la pratica di dedicare a persone o gruppi ritenuti degni di memoria storica come esempi virtuosi, la posa di una pianta di ulivo in una zona del parco di Villa Pamphilii. Hanno chiamato questa zona, così come avvenuto in altre città, «Giardino dei Giusti». Ecco, qualcuno, non so chi, ma degno di tutto il disprezzo che si può raccogliere, ha pensato bene di passare da casa, prendere martello e scalpello per mettersi a danneggiare le piccole lapidi con i nomi dei rimembrati. Non tutti però – i nomi di Adriano Olivetti e altri sono a posto, sono più gli altri, quelli con nomi arabi o vagamente ebrei, a essere stati presi di mira. Il tentativo di cancellare il nome degli eliminati nei campi, non riesco a non considerarlo come un segno terminale, irreversibile, di una bassezza estrema, nascosta, eppure in bella vista, fatta della stessa sostanza di ogni tipo di violenza gratuita esercitata verso gli indifesi senza alcun motivo materiale o economico.

Incluso un tentativo di svellere il cippo, debitamente scalpellato – tentativo rimasto incompiuto, troppa fatica, dai, torniamo a casa che c’è la partita.

La consapevolezza, seppure muta, quasi mai verbalizzata, della prospettiva di venire nullificati nella morte, rende probabilmente gli uomini peggiori delle peggiori bestie (le vespe mandarine, a dare retta a Darwin). Annientare qualcun altro sembra essere un antidoto, per quanto effimero, un rituale osceno a cui applicarsi con un’altrettanto detestabile determinazione, producente una soddisfazione dall’emivita breve, brevissima.

Il niente attende questi qui come attende noi – nel frattempo, se la vita che si svolge è anche un po’ (o molto) di merda è sì colpa di tante nostre idiosincrasie e di indisponibilità a tentare di diventare un io possibile invece di uno dovuto, ma è anche perché quell’atteggiamento che i più rozzi (o forse disinvolti) di loro hanno, appartiene a tanti, ben confusi nel centro, a destra, a sinistra, sopra, sotto. E questi, con i loro metaforici martelli e scalpelli, pieni di passione e opportunismo, ci sbrecciano quel po’ di salute mentale ed emotiva che sopravvive all’acceleratore di particelle che, nell’interiore, esegue, incessantemente, milioni di pressoché inutili esperimenti alla ricerca di risibili, bislacche e un po’ comiche leggi universali e sentenze di auto-assoluzione che non arrivano mai.

Di tanto in tanto mi viene da pensare a quegli internati del campo Auschwitz I che, obbligati a costruire la famigerata insegna ARBEIT MACHT FREI, installarono la B di ARBEIT rovesciata. Mi dico sempre che preferisco ritenere che la storia che riconosce in quel rovesciamento un atto di rivolta sia autentica.

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(Quasi)