Parole e immagini sono inscindibili nel fumetto?

Francesco Pelosi | La cassetta degli attrezzi |

Il fumetto in Italia è sempre più arte di nicchia. E pur con i primi posti delle classifiche di vendita occupati dai libri di Pera Toons, Lyon e Zerocalcare o dagli ultimi tankobon di Tokyo Revengers e Chainsaw Man, non si può dire diversamente. Quelli citati sono infatti fenomeni, fuoriclasse, duraturi o momentanei non si sa, ma che non determinano assolutamente il rapporto medio dei lettori italiani di oggi con il mondo del fumetto (figuriamoci poi quello dei non lettori, che sono la maggior parte).
Detto questo, ancor più di nicchia dell’arte del fumetto, è l’artigianato, il “come si fa”. Moltissime persone, per esempio, non hanno idea, né del resto interessa loro, che alcuni fumetti siano creati da autori unici (che realizzano in toto una storia, dall’inizio alla fine) e altri da coppie o da squadre di autori (a partire dalla suddivisione di base, sceneggiatura e disegni, per arrivare a quella propriamente industriale con figure professionali deputate a ogni specifico passaggio: soggetto, sceneggiatura, matite, chine, lettering, colori e volendo ancora oltre).

Questa premessa serve a dare un contesto al vero punto che voglio toccare, per chi accidentalmente leggesse queste righe senza aver nulla a che fare con il fumetto (anche se sappiamo bene che QUASI non lo legge nessunəe che tuttə quei nessunə si interessano in qualche modo di fumetto: ma non poniamo limiti alla provvidenza). La mia domanda è: testi e disegni in un fumetto sono inscindibili?
La risposta, scontata e magari deludente, mi rendo conto, è: sì e no. 
Certo, il fumetto è cosa a sé, opera terza rispetto a parole e disegni, gli apparenti due fattori che lo compongono (volendo precisare infatti, si potrebbe dire che non è ciò che compone il fumetto a essere molteplice, ma lo sono, al massimo, gli autori che lo fanno), ma una cosa generalmente tenuta in poca considerazione quando si parla di questo è l’aspetto ipnotico dell’immagine. Il suo ruolo soverchiante rispetto alle parole.  Quell’ipnosi, quasi un effetto placebo, per cui in presenza di una storia mediocre o di dialoghi un po’ così, ma di disegno potente, bellissimo, che rapisce l’attenzione di chi legge, fa comunque soprassedere sulla pochezza dei testi.
Potremmo chiamarlo “effetto Image”, in riferimento all’incredibile successo dei comics anni Novanta di Rob Liefield, Todd McFarlane, Jim Lee e soci, poverissimi di storia ma infarciti di disegni spettacolari, a volte persino belli (il più delle volte invece solo sensazionalisti). E a pensarci bene, le immagini non devono essere “belle”, ma devono catturare lo sguardo, devono essere carismatiche. Disegni di questo tipo, con carisma, assolvono le narrazioni mediocri e le trasportano su un altro piano. E lo stesso discorso può essere fatto ribaltando il punto di vista: anche il fumetto scritto meglio non supererà mai la barriera di un disegno mediocre.

Questi pensieri sono scaturiti dalla mia recente rilettura di Alla ricerca della Pietra Zodiacale, un’avventura in dodici parti apparsa su “Topolino” nel 1990, scritta da Bruno Sarda e disegnata da Massimo De Vita (8 episodi) e Fausto Valussi (4 episodi).
Da bambino, grazie ai “Topolino” recuperati da un cugino più grande di alcuni anni, lessi tre o quattro parti della storia, che venne pubblicata in 12 numeri consecutivi del settimanale (un piccolo caso editoriale), e ne rimasi profondamente affascinato. Pochi anni dopo, nel 1995, l’intera saga venne poi raccolta in un unico volume da edicola, Oroscopissimo, ed ebbi modo finalmente di leggerla per intero. Avevo undici anni e, seppure non conoscessi il nome di Massimo De Vita perché non facevo ancora caso agli autori delle storie, il suo segno aveva già su di me un ascendente potentissimo. Ogni storia disegnata “così” (ovvero disegnata da lui o come lui, come scoprirò), aveva tutta la mia attenzione, a partire dal ciclo della Spada di ghiaccio per arrivare a C’era una volta… in America. All’epoca non mi ero però accorto del cambio di disegnatore all’interno della saga, forse perché Valussi ha uno stile che guarda a De Vita, forse perché non ero poi così attento né scafato, e la cosa non aveva attirato la mia attenzione. Ma quando quest’anno la Pietra Zoadicale è stata ristampata da Panini in tre numeri della serie antologica “Le Grandi Saghe”, e ho fatto un regalo al me stesso di trent’anni fa ricomprandola (perché – lacrime, grida e stridor di denti, me tapino – nel frattempo ho smarrito la vecchia edizione), non ho potuto non accorgermi dell’avvicendarsi dei due disegnatori.
Con gli occhi di oggi ho notato subito quanto il segno di De Vita riempia la pagina, colmandola di significato anche là dove la sceneggiatura mostra il fianco. Alla ricerca della Pietra Zodiacale infatti, al netto di un high concept davvero bello e interessante, nella trama di alcuni episodi (soprattutto confrontata con quelle dei più riusciti) lascia un po’ a desiderare. E questo scarto è sottolineato anche dall’oggettiva distanza tra le pagine di De Vita e quelle di Valussi che, pur essendo anch’esso un ottimo professionista (per averne prova, basti vedere le sue I promessi topi, Topolino e il mistero del Nautilus o Paperino e il Signore del Padello), qui non regge il confronto con il collega. Quando c’è De Vita sulla pagina, la Pietra Zodiacale, anche dove un po’ fiacco e confuso, diventa comunque un grande fumetto. E lo fa acquistando senso in altre zone della percezione, al limite del regno della razionalità e più vicine ai territori dell’empatia istintiva. 

Tale è il potere e la responsabilità di un disegnatore, il volto, il corpo e spesso anche il fascino – il carisma appunto – di ogni storia a fumetti. Poi certo, c’è anche lo spirito, il vento invisibile che muove la storia dall’interno e che l’ha creata, che appartiene allo sceneggiatore. Ma, come accade con gli esseri umani, se la comunicazione con l’esterno non riesce, e cioè se la scrittura non è a sua volta talmente carismatica da superare la barriera insormontabile della forma che la veicola (cosa davvero rara), lo spirito rischia di rimanere prigioniero della materia. E lo stesso si può dire, ancora una volta, del contrario: quante volte un corpo piacente, che ci ipnotizza con la sua bellezza e col suo charme, ci ha illusi di essere anche pregno nella sostanza, pur magari non essendolo per nulla? 
Pensandoci bene, è qualcosa che sta alla base di molti comportamenti automatici dell’umano, razzismo e omofobia compresi: concediamo istintivamente più importanza all’immagine della forma rispetto al suo reale contenuto, le diamo la possibilità di condizionare, a volte definitivamente, le nostre impressioni rispetto alla totalità di un essere. E così accade anche nei fumetti. 
Per cui, testi e disegni sono inscindibili? Di nuovo: sì e no. Dovrebbero esserlo, concettualmente lo sono, e fattivamente anche, soprattutto nelle opere di autori unici dove è più facile che significato e significante coincidano. Ma il potere non-verbale delle immagini, la loro intrinseca qualità ipnotica, il loro carisma, fa sì che spesso non lo siano, ponendo perentoriamente la forma davanti al contenuto. Il visibile sull’invisibile.

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