generazione videomusic

Boris Battaglia | post-it |

Superata una certa età – per me è successo appena compiuto il mezzo secolo – non ti vergogni più di niente. Nemmeno di frequentare le edicole (quelle che ancora esistono). Capitano giorni che li passo a spostarmi da un capo all’altro di Milano. Uso la metropolitana. Ogni viaggio da una stazione all’altra, (di solito il percorso è Bisceglie- Udine, con cambio a Loreto) mi dura un bel tre quarti d’ora. Ne aprofitto per leggere, solo che mi ricordassi una benedetta volta di portarmi dietro quel cazzo di noiosissimo saggio che ogni volta che lo prendo in mano di sera mi addormento cionfo. In metropolitana non mi addormento, riuscirei finalmente a finirlo, invece niente.

Te l’ho detto che non mi vergogno più di niente. Allora mi fermo in edicola, a Bisceglie non c’è più, ma in Bande Nere sì. E di solito compro l’ultimo numero di “Rumore”.

Al numero di gennaio (se ti sbrighi lo trovi ancora!) è allegato un libretto delle loro divertenti guide “50+50”, curato da Luca Pacilio e dedicato ai 50 videoclip (+ altri 50) che hanno fatto la storia della musica che si guarda.

Se esistesse ancora, ad aprile Videomusic compirebbe quarant’anni. Ne avevo sedici quando cominciò le trasmissioni. Era un punto fisso delle mie giornate. Tornavo da scuola e prima ancora di sfilarmi l’Invicta, accendevo la tele su Videomusic. Pranzavo, studiavo, facevo le versioni sempre con i video che andavano. I videoclip erano una costante in sottofondo dei miei pomeriggi, spegnevo quella cazzo di tele solo quando uscivo. Leggere il libretto di Pacilio mentre la metro mi portava a Loreto mi ha fatto ripiombare in quelle giornate della mia adolescenza, fatte solo di voglia di Veder la musica (è il titolo del volumetto)… cioè, anche di altre voglie, ma molto più difficili o addirittura impossibili da realizzare.

Non vorrei essere frainteso: non è un volumetto nostalgico. Anche perché tra icento videoclip non ci sono mica solo Once in a lifetime, Take on me, Close to me, Sledgehammer, Running up that hill, Personal Jesus. C’è anche roba contemporanea, del 2018 come This is America di Childish Gambino o Call out my name dei The Weeknd che mi ha fatto piacere scoprire.

È un breve saggio, per forza di cose incompleto – mancano un sacco di cose che io ci metterei e alcune che trovo irrilevanti – che cerca di storicizzare il sistema narrativo dei videclip analizzando (purtroppo solo in due paginette all’inizio dell’elenco e due paginette alla fine) prima il periodo televisivo e poi quello del web.

Dai, corri a prenderlo, che poi ci litighiamo su cosa ci avresti messo e cosa non ci avresti messo, tu.

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(Quasi)