Quando avevamo l’età per giocarci, si chiamava ancora “Monopoli”. Mica ci aveva quella Y in fondo. Ce l’avesse avuta, avremmo chiarito uno dei grandi misteri delle nostre infanzie. Non leggevamo quel nome “monopòli”, come sarebbe stato logico aspettarsi. In fondo, sapevano che alcol e tabacco erano monopòlio di stato e sapevamo che in giro c’era merce di contrabbando – soprattutto le sigarette – che costava meno. Quando qualcuno apriva il tabellone quadrato, caratterizzato da quella dominante verdina, l’invito per tutti era: «Giochiamo a Monòpoli?» A quel punto iniziava la caciara. Si cominciava a fare confusione per accaparrarsi il simbolo segnaposto a forma di fiasco; se ti muovevi male, poteva capitarti l’orrida pera, a tutti invisa. La distribuzione delle banconote e dei terreni edificabili era un’attività sospetta che tutte le volte generava litigi e insulti alle genitrici. Nella nostra cerchia di amici nessuno aveva mai letto il regolamento. Le informazioni di gioco erano state passate di generazione in generazione, con diverse approssimazioni, e questo telefono senza fili aveva creato un sistema di norme semplificato, disinibito e inventivo che permetteva colpi di mano.
Solo una regola era inviolabile. Le carte degli “Imprevisti” davano ordini cui bisognava garantire cieca obbedienza. Il peggiore di tutti recitava: «Vai in prigione senza passare dal via». Uno smacco: le ventimila lire garantite al completamento di ogni giro erano una sorta di reddito di cittadinanza; esserne privati ci spiegava con chiarezza quanto il potere potesse essere ingiusto.
Da allora «senza passare dal via» risuona nelle nostre orecchie come una maledizione incomprensibile. Una condanna senza appello cui, se non fossimo così rispettosi del potere, ci ribelleremmo.
Da mesi, guardiamo quotidianamente la curva che rappresenta l’andamento del contagio sul territorio nazionale. Solo l’anno scorso, grafici di quel tipo avrebbero rappresentato, ai nostri occhi, gli andamenti finanziari degli investimenti dei super ricchi presenti nelle vignette della “Settimana Enigmistica”. Quando la linea spezzata tende a salire si festeggia; quando scende si monta sul cornicione. Incapaci di gestire i nostri miserrimi capitali e di fare investimenti di qualsiasi tipo, mai ci saremmo immaginati di prestare così tanta attenzione all’andamento di indicatori numerici e di mandare a memoria cifre chiave.
Lo scostamento da un giorno all’altro può essere spaventoso. E, quando succede, le nostre vite, che hanno ormai assunto preoccupanti connotati di morigeratezza, subiscono impatti diretti.
Le osterie sulle cui panche ci piaceva sedere sono chiuse. Le bicchierate a casa ci sono vietate. Dopo le 22.00 non si può stare in strada. I ristoranti e le trattorie non ci possono più servire pietanze né a pranzo né a cena. Dopo le 18.00 non si può comprare alcol.
Lo sappiamo. Bisogna evitare il collasso del sistema sanitario. Bisogna minimizzare i danni. Impedire la tragedia. Salvare più vite possibili, soprattutto quelle di coloro i quali uno sciagurato ha definito «non indispensabili allo sforzo produttivo del paese».
Lo sappiamo. Eppure…
Eppure non riusciamo a non sentirci come se avessimo pescato la maledetta carta degli imprevisti. Ci andiamo in prigione, di corsa. Non passiamo dal via. Non ritiriamo quelle ventimila lire che ci avrebbero fatto molto comodo. Ma, nella tristezza delle nostre celle, canteremo a squarciagola gli stornelli di rivolta. Non fanno male a nessuno, ma rendono più lieve la nostra pena. E mica al balcone come un qualsiasi cantantucolo da lockdown. Lo facciamo su QUASI, perché non vogliamo dare fastidio a nessuno.
Per tutta la settimana, QUASI si sviluppa intorno al tema “Senza passare dal via”. Per fortuna, in questa prigione avevamo nascosto bottiglie comprate rigorosamente prima delle 18.00.
Al fresco, si conservano benissimo.