Col bene che ti voglio

Quasi | QUASI |
Disegno di Adriana Lago.

Entrambi diciamo di odiare le barzellette. Uno di noi due (e non diremo quale) ne racconta continuamente. Le sceglie vecchie, scontate e conosciute da tutti. E, quando incappa in qualcuno che non ha mai sentito la sua sciocchezza, sbotta in un fastidiosissimo: «Ma, tu, le elementari non le hai fatte?»

Quella con cui ha funestato gli ultimi giorni funziona solo a voce e suona più o meno così:

«Qui una volta era tutta Campania. Poi è sparita e il Molise è scivolato verso la Basilicata, l’Abruzzo e sceso sulla Puglia e il Lazio si è unito alla Calabria.»

Questa nefandezza irripetibile, che circolava tra i banchi della scuola primaria poco dopo la metà del secolo scorso, spiega alcune cose. Innanzi tutto, dice che la convivenza tra le pareti di casa QUASI funziona perché almeno uno di noi due, a fasi alterne, è resistente e tollerante verso l’altro. Poi, indica che le mappe politiche del paese, appese in classe, avevano un’utilità. Infine chiarisce che, agli imprevedibili eventi in corso, noi, nati poco dopo la metà del secolo scorso, eravamo preparati.

Il modello teorico alla base della barzelletta scema prevede che, se rimuoviamo un’area dalla mappa appesa alla parete, quelle che stanno sopra assecondano la forza di gravita e cadono verso il pavimento. È chiaro a tutti, anche ai bambini cui la battuta era riservata, che si tratta di una situazione paradossale e inverosimile, eppure quella risata infantile ci è servita. Proprio ora, proprio qui.

Abbiamo smesso di vivere che era ancora inverno. Ci siamo barricati in casa e il tempo ha iniziato a scorrere a una velocità diversa. Il sistema di narrazioni in cui viviamo è cambiato radicalmente. Quando abbiamo riaperto la porta era estate e tutto quello che sapevamo della freccia del tempo si è rivelato falso.

«Dopo l’inverno viene la primavera», dice la saggezza antica del giardiniere Chance. FALSO!

C’è stata negata la stagione degli amori, quella durante la quale le carni si scoprono un po’ alla volta e i corpi in strada diventano il panorama di cui non possiamo fare a meno. Non abbiamo vissuto il fresco della sera e le chiacchierate in piedi, davanti al nostro locale preferito, con il bicchiere in mano e l’ultima bottiglia ormai vuota. Non abbiamo litigato fino allo schiamazzo (per cose da niente come i fumetti o i film di Ridley Scott) in strada quando ancora le zanzare non danno noia e noi non diamo fastidio ai cittadini onesti, quelli che domani si lavora, perché si dorme ancora con le finestre chiuse.

Adesso è luglio. L’inverno è diventato estate. CI siamo chiusi in casa quando fuori c’era freddo e si indossavano giacconi e cappotti e ne siamo usciti con le maniche corte o arrotolate e madidi di sudore. Che brutta cosa quando scopri che la saggezza reazionaria dei modi di dire più beceri può diventare realtà: non ci sono più le mezze stagioni.

Siamo usciti per andare a sentire Tito Faraci che, con Laura Campiglio e Alessio Bertallot, presentava il suo nuovo libro, Spigole. Lo abbiamo ascoltato con attenzione mentre raccontava di Ettore Lisio, il protagonista del romanzo, che è uno sceneggiatore di fumetti, frustrato dalla creatività coatta cui la professione lo costringe, che non riesce più a scrivere le storie del ranger più amato dagli italiani. Un personaggio dei fumetti tutto di un pezzo, ma non troppo sveglio, che, da tempo immemore, è costretto a vivere avventure sempre uguali ma sempre diverse.

Nonostante le somiglianze, Tito ci ha tenuto a specificare che non c’è autobiografia in Spigole. Ha detto, con assoluta fermezza: «Ettore Lisio non sono io. Tutti i fatti, i luoghi e i personaggi di questo romanzo sono inventati. Anche quelli veri.»

A casa, abbiamo letto le copie del libro che Tito ci ha donato, sbagliando i nostri nomi nella dedica. Ci abbiamo trovato due strani personaggi:

«Prima di conoscerli di persona, Ettore aveva frequentato a lungo i blog di Pietro Mori e Sandro Barbieri. Era un’epoca in cui i blog contavano ancora qualcosa, poco dopo l’ultima glaciazione. Entrambi si occupavano soprattutto di fumetti, con occasionali scorrerie in arti minori, come la letteratura e il cinema, o maggiori, come le serie televisive. E su quei blog i fumetti da Ettore sceneggiati – e quindi lui stesso – erano massacrati con un impegno degno di miglior causa. Ettore aveva odiato quei due blog, e quei due tizi che sorridevano beffardi nelle fotine dei rispettivi profili. Li aveva odiati di un odio sordido e ossessivo. Cosa di cui, in seguito, avrebbero spesso scherzato. Tutti e tre insieme.»

Ci teniamo a precisare che quei due personaggi non siamo noi. I loro due blog, “Carta Vetrata” e “AnarChine”, non sono i nostri. I difetti che Ettore Lisio assegna a quei due loschi figuri non ci appartengono. Nemmeno i pregi. Neanche in questo luglio caldissimo, servitoci senza la preparazione primaverile.

A dimostrazione di ciò, portiamo il fatto che Lisio definisce Pietro Mori e Sandro Barbieri «quelle due intelligentissime teste di cazzo». Con ogni evidenza, non siamo noi.

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