E terra e polvere che tira vento e poi magari piove.

Quasi | Plat du jour |

di Mabel Morri

Lo chiamavamo Mariolino.

Trent’anni dopo, pur essendo diventato marito e padre di tre figli, lo chiamiamo ancora così.

È il figlio di una cara amica di mia madre, eravamo molto amici e tutti pensavano fossimo “fidanzatini” con quell’accezione maliziosa e fintamente innocente delle azdore degli anni ‘80. Che ovviamente io non capivo perché mi interessava solo giocarci con Mario, nei miei ricordi ottimo compagno di giochi per altro, tra trasformazioni di robot, spallinate di cowboy e indiani con pistole che sparavano proiettili di gomma che facevano un male dell’ostia, e pallone.

Abitava in una villa, appena fuori dalla Marecchiese all’altezza della partenza della gara ciclistica dei Fratelli Anelli, la Coppa della Pace, e aveva un giardino immenso.

Era lì che provavamo i numeri visti in tv nel cartone animato Holly e Benji. Alla catapulta infernale mi rifiutai, ma ancora oggi non ho idea di come noi due non ci si sia fratturati i piedi a fare il tiro incrociato di Holly e Tom Becker. Mario era destro, per cui io fin da piccolissima, considerato che tutti giocavano con quel piede, mi abituai a usare il sinistro. Mancava sempre uno che tirava di sinistro.

Se potessi calciare oggi, senza rischiare una settimana di letto per la schiena, calcerei ancora col sinistro.

Un’infanzia molto italiana, banale pure perché non mi perdono nulla, molto spensierata.

A calcio ci ho giocato fino all’università e a Milano, quando frequentai la Scuola del Fumetto.

Descrivo di com’era il calcio femminile in provincia nel racconto Fuori area, sul mio blog. In modo molto, molto romanzato, decisamente poco autobiografico, ma le atmosfere e le difficoltà per le ragazze erano quelle.

Prendi questi per esempio.

I disegni appena qui sopra.

Quando poco più che ventenne a metà dei ‘90, prima della moda della Moleskine, quando le agende e i calendari le regalavano le banche, c’erano i primi quaderni di carta riciclata.

1.200 lire per quella carta più scura che sembrava preziosa, uno dei primi progetti col simbolo dell’alberello e la scritta “eco” a sottolinearlo.

Io disegnavo sempre, quando scoprii i codici del disegno figurativo studiato al liceo ma applicato solo alla Scuola del Fumetto e al fumetto stesso, fu assolutamente scontato che su quella carta preziosa disegnassi i calciatori.

Per l’anatomia, per il movimento, per le inclinazioni e le proporzioni, prendendo coraggio e bianchetto e usando quella carta così bella.

Mio padre fumava. Il fumo della sigaretta si levava mentre scarabocchiava qualcosa su un’agenda della banca.

Un altro fumo di sigaretta si leva nella mia memoria.

E’ quello delle sigarette di mio nonno e mio zio, nella vecchia cucina della nonna: una cucina illuminata dal sole feroce delle ore calde e fresca di sera, nell’aria buona di una Rimini di fine anni ‘70.

Risuona ancora nelle primavere degli inizi degli anni ‘80 canzoni come Dolce vita alternate ai risultati delle partite del campionato alla radio. Stavo crescendo a Rimini, una Rimini lontanissima dal decennio bolognese, in una bolla, anche se in spiaggia e nei parchi ci si trovava a camminare su tappeti di siringhe sporche di sangue, una bolla di discoteche e musica e festa perenne. Tutto e tutti sembravano sempre felici e festaioli.

In quella cucina, Paolo Valenti chiamava Tonino Carino da Ascoli, Luigi Necco da Napoli, Pier Paolo Cattozzi da Bologna, Giorgio Bubba da Genova, io bambina che dovevo per forza stare con i cugini, io volevo vedere i gol mica giocare con le bambole che poi avrei comunque finito per odiare. C’era sempre quel momento: il pranzo e poi via, i grandi tra di loro e i bambini a giocare. Il mio primo sorso di vino rosso lo bevvi a quella tavola che nelle mie polverose memorie è a quadri rossi e bianchi, ma la nonna aveva gusto come la mamma e non sia mai che non si usasse la tovaglia buona della domenica.

Anche mia mamma è appassionata di calcio, lo era. I miei sono stati i classici trentenni dei primi anni ‘80 splendidi e felici, giovani e frizzanti, ci lasciavano dai nonni e andavano a festeggiare la vittoria del Mondiale dell’82, come poi fece tutta Italia, e se ne andarono ad Atene a vedere il siluro di Magath nell’angolino in alto a destra della porta di Zoff.

Ho sempre fatto due cose, da sempre, nella mia vita: disegnare e giocare a pallone. Continuo a disegnare e disegno di calcio non potendolo più giocare.

Mio babbo comprava penne e le riviste di auto e moto, io chiedevo matite e il “Guerin Sportivo”.

Con il nonno e lo zio guardavo “90° minuto” alla televisione la domenica.

Quando Berlusconi comprò il Milan e divenne quel Milan dei tre olandesi, io saltavo scuola e andavo a Marsiglia, la Marsiglia dei fari spenti, a Milano per le rovesciate di van Basten, a Monaco per l’ultima partita di Coppa Campioni del Cigno olandese, ad Atene a vederne 4 rifilati al Barcellona di Cruijff.

Mio nonno se ne andò nell’inverno in cui cadde il Muro di Berlino, strinsi forte mio zio fuori dalla camera ardente della nonna e poi non abbracciai più nemmeno lui che riuscì a vedere gli scudetti del Napoli maradoniano ma non quello meraviglioso di Sarri.

Io crescevo disegnando e continuavo a leggere il “Guerin Sportivo”.

Crescevo tra le illustrazioni di Gino Pallotti, i fumetti di Paolo Ongaro, i disegni di Marco Finizio, le caricature di Franco Bruna.

Mi dicevo: allora si può disegnare di calcio!, si può usare il fumetto per raccontare lo sport!

E allora prendi questa tavola qui sopra.

Prendo e vado due volte alla redazione del “GS” a San Lazzaro di Savena, la prima sotto la direzione di Marino Bartoletti poi sotto la prima delle due di Ivan Zazzaroni.

Propongo uno stile che riprenderò ammorbidito vent’anni dopo, voglio raccontare il campionato a fumetti. Vado pure da ForzaMilan!, niente, non vogliono farmi fare fumetti a tema calcio.

Poi c’è la vita, i trent’anni, arrivano le mie ragazze da raccontare, quel mondo di cui sopra, abitato da personaggi a cui dare voce. Nascono Le Mele, la mia autoproduzione, i romanzi a fumetti, le mie figurine.

Queste.

Il calcio femminile finalmente inizia a essere preso in considerazione.

Si abbatte anche il pregiudizio della donna arbitro.

Immancabile Carolina Morace, per me mito come solo fu van Basten che pure c’è nella collezione delle figurine, progetto a cui mi dedico a fine giornata quando posso.

Le ragazze che ci regalano un Mondiale in Francia 2019 sono ciò che avrei voluto vedere trent’anni fa, quando giocava la Morace e pure io ci provavo, su campi di terra e polvere prima della pioggia. Ricordo campi di fango, scivolate infinite su fasce allagate, scarpini dai tacchetti bullonati che a levarlo, quel fango appena si seccava, era duro ammazzato a scrostarlo. Lo racconto in Fino a qui tutto bene, è autobiografica giusto la parte della danza sostituita dal calcio.

Mentre disegno il primo volume di Volevamo essere le Spice Girls ambientato negli anni ‘80, nella riproduzione automatica dell’app parte Show me heaven, canzone portante del film Giorni di Tuono con Tom Cruise, pellicola ricordata solo per l’amore sul set di una giovane sconosciuta attrice australiana dai capelli rossi di nome Nicole Kidman. Le macchine che piacciono tanto al babbo.

Sono invecchiati anche loro, io e mio babbo non fumiamo più, e io continuo a disegnare calciatori e calciatrici.

Gli ultimi sono questi qui sopra.

Il numero 7 di “Hai mai notato la forma delle mele?” è uscito in digitale sul mio blog, con la struttura del profilo.

La sera, col bicchiere della staffa, è capitato che li disegnassi così, per scaricare un po’ la tensione da Spice, fumetto nel quale a riguardare le tavole il calcio non manca neppure questa volta. Ce n’è pochissimo, ma c’è.

Un giorno, qualche mese fa vado in edicola col babbo.

Guardiamo i giornali, le riviste. Lui si compra le sue di auto e moto, io il “Guerin Sportivo”.

Mi dice, sorpresissimo: «Ma leggi ancora il “Guerin Sportivo”?».

C’è una vita prima e una vita dopo alcuni grandi eventi, poi ci sono le costanti.

Disegno e calcio.

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