Gravità

Ugo e Michel | La grande abbuffata |

(Le illustrazioni sono di Lucia Lamacchia, che è responsabile di quanto segue almeno quanto lo sono Ugo e Michel.)

Il mondo e le leggi che lo governano sono nemici del corpo umano. Non parliamo, sia chiaro, di confini, valute e valori giurisprudenziali. Intendiamo esattamente le leggi del mondo. Leggi inique che impongono al tempo di scorrere in una sola direzione e ai corpi di cadere.

Non ci siamo risparmiati, nel corso delle nostre vite. Eccessi piccoli e modesti che ci hanno garantito un po’ di godimento, e di arrivare alle nostre età ancora vivi e abbastanza sani. Cibo, alcol, qualche droga, non troppe ore di sonno, un’idea di affettività piuttosto inclusiva grazie alla quale siamo stati spesso tra lenzuola che poi non dovevamo infilare noi in lavatrice. Niente di realmente memorabile. Però abbiamo vissuto e nessuno potrà toglierci i balli che abbiamo danzato.

Questi corpi, per colpa di quelle leggi, invecchiano e si appesantiscono. In assenza di gravità i nostri ventri sporgenti non punterebbero verso il basso, le nostre guance macerate dagli anni non cascherebbero, i nostri passi sarebbero più leggeri.

Già.

La dittatura della gravità è insopportabile. Per fortuna esiste un modo per opporvisi. Lo abbiamo appreso leggendo una nota autobiografica di Kurt Vonnegut. «Sono alto un metro e ottantotto e peso una novantina di chili», dice lo scrittore, «e non sono molto coordinato, se non quando nuoto».

Ecco. Nuotare.

Abbiamo delle difficoltà a staccarci dalla città. Odiamo le spiagge e la convivenza forzata in stato d’ozio con altri corpi che si sono spogliati per concedersi al sole, al sale e al vento e non a noi. Non siamo solitari. Vogliamo vivere il nostro tempo libero con individui che abbiamo scelto, che ci hanno scelto, che si sfilano gli abiti perché siamo lì in quel momento.

Siamo fortunati e possiamo ritagliarci visite in piscina nei momenti in cui sono meno frequentate. Trasciniamo il peso dei nostri corpi in edifici caldi, umidi e odorosi di cloro, andiamo in cassa, paghiamo e ci infiliamo negli spogliatoi. La preparazione è un rituale lento. Goffamente cerchiamo di appoggiare le nostre cose nello spazio riservatoci. Le chiavi dell’armadietto ci cadono più volte. Mentre spostiamo il portafogli non ricordiamo più dove abbiamo appoggiato il cellulare e viceversa. Siamo contenti che nessuno ci abbia visti barcollare mentre ci sfiliamo i pantaloni. Le ciabatte ci scappano tra i piedi. I calzini arrotolati nelle scarpe sono insopportabili.

Siamo pronti: costume, ciabatte, accappatoio e, in mano, cuffia e occhialini. Chiudiamo l’armadietto e, solo allora, ci accorgiamo che indossiamo ancora gli occhiali che correggono la presbiopia. Dopo qualche imprecazione sussurrata appena, possiamo uscire dallo spogliatoio.

Le orecchie si chiudono con un rimbombo sordo. Gli occhi si riempiono di azzurro. Immergiamo i piedi nella vaschetta purificatrice posta all’ingresso della piscina, mentre leggiamo per la millesima volta un cartello che ci ricorda che, prima di entrare in acqua, sono obbligatorie le abluzioni in quell’acquasantiera sanificata e carica di disinfettante.

Attraversiamo lo spazio aperto, evitando di incrociare lo sguardo dei pochi individui che già si muovono, al meglio delle loro possibilità, in acqua. Scegliamo il nostro gancio e appendiamo l’accappatoio. Trasciniamo le ciabatte fino al bordo della piscina e le abbandoniamo lì. Poi, con un ultimo movimento non molto coordinato, entriamo in acqua. Il contatto con il freddo ci dà vita.

Scegliamo una corsia, ben distante da quelle degli altri, e iniziamo a muoverci. Braccia, gambe, rotazioni della testa, controllo della respirazione. Rimaniamo concentrati sul movimento, mentre il corpo prende confidenza con l’acqua. Poi, la libertà dello stile con cui galleggiamo ci svuota la mente.

Non c’è più bisogno di pensare al corpo, a come si muove fuori dall’acqua, a come la gravità lo attrae verso il basso, a come invecchia, a come conquista a fatica il suo spazio in un tempo che lo spinge in una sola direzione.

Le leggi del mondo sono sospese.

Fino a quando l’orologio non ci ricorderà che il tempo per cui abbiamo pagato la nostra libertà è finito.

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(Quasi)