L’esperto anaffettivo

Paolo Interdonato | Bagatelle per un Alph-Art |

Un consulente è un individuo che fa lavori che altri non vogliono fare. Nell’ottovolante della terziarizzazione e dei servizi, è un forestiero, uno che viene da fuori ed entra in un’organizzazione con un contratto diverso da quello di tutti gli individui che lì lavorano e prosperano. Insomma un consulente è uno straniero in terra straniera, uno Xenos, un gaijin, … C’è chi dice, con malcelata ironia, che, se per arrivare nel posto in cui lavora fa più di cento chilometri, allora il consulente deve essere definito “esperto”.

Per un decennio sono stato un esperto. Montavo su un aereo il lunedì all’alba e ritornavo nel luogo in cui avevo la residenza il sabato. Raggiungevo città in cui tutti, normalmente, parlavano lingue che non conosco, e comunicavo con gli indigeni con una forma semplificata di inglese che mi consentiva la sopravvivenza professionale e alimentare. Un lavoro fatto da tante ore trascorse in uffici e sale riunioni. Un modo speciale per accumulare stress, stanchezza e cattivo umore. Poi, fortunatamente, arrivava la fine della giornata e potevo finalmente godere della solitudine.
Jim Morrison dice che la gente è strana se sei uno straniero: le facce sono brutte, le donne perfide e le strade sconnesse. Un’infilata di sciocchezze. Essere uno straniero in terra straniera ti mette in una condizione di vantaggio. Quando sei solo, sei solo davvero. E godi della tua presenza esclusiva vivendo un luogo cui non ti affezionerai mai. Perché l’esperto non è un turista: la città in cui è capitato non se l’è mica scelta. E quando gli va bene e trova bello il luogo in cui vivrà per qualche tempo, sa che non potrà radicarsi in alcun modo. Non bisogna affezionarsi alla camera d’albergo, al ristorante che fa un ottimo chicken tikka masala, alla barista che prepara il gin tonic e neanche alla libreria aperta fino a tardi. L’esperto deve imparare l’anaffettività. Innamoramenti e nostalgia pesano e il consulente viaggia leggero: si muove con un trolley che finisce «nelle cappelliere sopra le vostre teste» due, tre, quattro volte la settimana.
Da esperto ho accumulato esperienza, soprattutto inutile e intorno a ciò che riguarda la sopravvivenza in una terra straniera ospitale: sono molto veloce a fare check-in e check-out negli alberghi, so muovermi tra i banchi self service delle colazioni mattutine, ho capito che il portiere della sede di un’azienda è una risorsa preziosissima da trattare con la più melliflua tra le gentilezze, ordino rapidamente in qualsiasi ristorante consultando menu scritti in lingue che non mi appartengono, individuo rapidamente il bagno e l’uscita, so quanti e quali albi e libri a fumetti infilare nel trolley prima di partire.

Sono stato un esperto per un decennio a cavallo tra i due millenni, esattamente negli anni durante i quali, dopo la chiusura di Granata Press, i lettori italiani di fumetti sono stati costretti a ridefinire la propria posizione nel mondo. La libreria stava ancora disegnando lo spazio che, di lì a poco, avrebbe dedicato al prodotto “graphic novel” e l’edicola era un territorio fatto di poche certezze e molte novità d’importazione. In quel momento succede un fatto strano che costringe una casa editrice a rivedere i propri programmi e a riempire di cose strane il mio trolley da straniero che porta sempre un po’ di casa con sé.

Faccio un breve riassunto. Dopo essere stati pubblicati, per una quindicina d’anni, dall’editoriale Corno, a metà degli anni Ottanta, i supereroi Marvel non hanno più uno spazio nelle edicole italiane. L’esperimento della Labor Comics dura pochi mesi e una ventina di uscite sparpagliate su quattro testate. A quel punto Sergio Cavallerin e Marco Marcello Lupoi propongono al tipografo Giovanni Bovini di dedicare una testata all’Uomo Ragno (a quel tempo Spiderman aveva ancora un nome italiano e non ci pareva affatto ridicolo). L’imprenditore di Bosco, in provincia di Perugia, apre nel 1987 la casa editrice Star Comics e lancia timidamente la testata dedicata all’arrampicamuri. Non gli va male. Dopo qualche mese, a quel primo periodico, se ne affiancano altri, tutti dedicati a supereroi: i Fantastici Quattro, gli X-Men, Capitan America, il Punitore… Star Comics non è la sola casa editrice interessata ai personaggi Marvel: a quel marchio si affiancano Comic Art, Play Press e Max Bunker Press che, a loro volta, acquistano i diritti di pubblicazione di singole testate statunitensi. L’edicola diventa un florilegio di materiali pescati quasi a caso, da quattro editori distinti che non hanno alcun interesse a collaborare, da un parco di pubblicazioni originali che copre un ventennio. Un marasma di letture capace di mandare in confusione tanto chi vuole seguire la continuity delle vicende quanto chi amerebbe cogliere le trasformazioni degli autori. Nel 1994, Marvel Comics apre la filiale editoriale italiana e recupera i diritti di tutte le pubblicazioni sparpagliate presso altri editori. Chi ha definito la propria presenza sul mercato grazie a quei personaggi deve rivedere significativamente i programmi editoriali e i piani di sopravvivenza.

Star Comics gioca una partita ibrida. Molto presto ai fumetti americani ha affiancato i manga – infilando lo strepitoso successo commerciale di “Dragonball” – e ha solo sette anni di storia: non ha processi sclerotizzati che la costringono a una coazione a ripetere. Per sopravvivere al brutto colpo, decide di inventare alcuni periodici tutti italiani. Sceglie due formati che sono già presenti in edicola: quello di “Diabolik” e quello di “Tex”.
Sul primo ha accumulato un’esperienza importante: per i manga che porta in edicola con grande sistematicità non ha abbracciato i formati tipicamente nipponici (tankobon o bunkobon), ma ha costruito albetti tascabili di un centinaio di pagine, identici per formato a “Diabolik”. Il secondo è una novità, che però altri editori frequentano senza paura.
Per qualche tempo nel mio trolley da esperto vagabondo finiscono sistematicamente due mensili: “Sprayliz” e “Hammer”.

Sprayliz è una graffitara le cui avventure avevo seguito con curiosità sulle pagine del settimanale “L’Intrepido” (poi raccolte in 3 albi “Compact” che ancora custodisco con affetto). Un fumetto lieve, carico di riferimenti sociali e di ammiccamenti alle microculture di cui, negli anni Novanta, i centri sociali occupati brulicavano. Era disegnato con linea chiara da Luca Enoch, autore quasi esordiente che padroneggiava la pagina benissimo, alternando dramma e commedia, horror ed erotismo.
Star Comics intercetta il personaggio, in un momento in cui Enoch sta cercando un nuovo spazio per continuare a raccontare le sue imprese, e inventa per l’autore (o, forse, con l’autore) un vincolo che fa esplodere la creatività (proprio come ci ha insegnato l’OuLiPo, ma questa è un’altra storia). Tra il gennaio del 1994 e il settembre del 1995 escono undici numeri di “Sprayliz” in formato tascabile, contenenti avventure che si sviluppano in 120 pagine composte da due vignette sovrapposte. In questa gabbia apparentemente rigidissima, Enoch libera una capacità compositiva della pagina che non si vedeva dai tempi di Magnus. Racconti semplici, spesso ingenui e didascalici, che scivolano come acqua e lasciano nel lettore divertimento e la sensazione di aver guardato delle belle pagine.
A dimostrazione del fatto che Star Comics stesse tentando di occupare quello spazio seriamente ci sono altre due testate, dalla vita assai più breve, uscite nello stesso periodo: “Shanna Shokk” di Marcello Toninelli e “Ossian” di Martino Barbieri e Patrizia Mandanici. L’impegno speso non è sufficiente a giustificare l’investimento economico e, poco dopo, il formato ritorna appannaggio del solo manga.

Da giugno 1995, per tredici mesi, la casa editrice porta in edicola un periodico nel formato di “Tex”. Si chiama “Hammer” e non è il primo bonellide pubblicato da Star Comics (da due anni produce “Lazarus Ledd” di Ade Capone). Questo però rivela, anche a un’occhiata sommaria, un grande sforzo produttivo: un universo fantascientifico costruito con una cura spasmodica, mechadesign attentissimo, personaggi sempre riconoscibili, ambienti non stereotipati. È l’opera di un gruppo di autori bresciani che i più attenti tra noi avevano già visto su “Profondo Rosso” e “Full Moon Project”: Riccardo Borsoni, Giancarlo Olivares, Mario Rossi (Mayo), Luigi Simeoni (Sime) e Stefano Vietti. Un ciclo di avventure che non è invecchiato benissimo (come del resto quasi tutto il cyberpunk), ma pagine che, ancora oggi, stupiscono per quanto sembrano indifferenti ai vincoli imposti dal formato.

Già da febbraio 1996 devo trovare nuove ossessioni periodiche da infilare nel mio trolley da esperto: quei due esperimenti di Star Comics, per molti versi straordinari, si interrompono bruscamente. Quasi tutti gli autori confluiscono nella casa editrice di Sergio Bonelli, venendo da fuori, con attitudine da consulenti, da stranieri in terra straniera, da Xenos, da gaijin…
Da subito le pagine che questi autori forestieri realizzano per l’editore milanese sono meno eversive, più controllate. Poi, progressivamente, si normalizzano, quasi che un controllo editoriale più attento alle tradizioni della casa faccia sentire il suo morso.
Il consulente, quando si radica in un ambiente, smette il suo ruolo di esterno, di esperto. Diventa un dipendente come tutti gli altri.

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