Zombie sul tatami

Arabella Strange | La cassetta degli attrezzi |

Ci sono stati mesi in cui li sognavo tutte le notti. Zombie ovunque. Si infilavano nelle case in cui ci barricavamo, sciamavano nei corridoi, lenti e barcollanti, grattavano alle porte. Gli zombie erano ovunque in quel periodo, non solo nei miei sogni. Leggevo il magnifico World War Z di Max Brooks o Warm Bodies di Isaac Marion e c’erano gli zombie. E nelle serie TV che guardavo, orde di zombie si trascinavano, animate dall’insensato, incomprensibile bisogno di divorare chiunque anche se avevano gli intestini esplosi che lasciavano cascare tutto quello che ingoiavano. Noi, i divorati, non eravamo cibo, non eravamo destinati a mantenere in vita i predatori. La loro fame sopravviveva alla vita.
Lo zombie abita una zona liminare, di terrificante assenza di coscienza, di desiderio unito a volontà incrollabile che lo trasporta, incurante di mutilazioni e inclinazioni impossibili di tibie e colli, con la bocca sempre spalancata. Il suo morso produce nuovi zombie, che tra loro non si divoravano, destinati quindi, alla fine, a popolare un inferno buddista di fame ubiqua che non potrà essere soddisfatta.
Nel telefilm inglese In the Flesh si cerca di riavvicinare la creatura all’umano immaginando una riabilitazione di ex zombie, trasformando la loro morte non morte in una situazione più controllabile: lo zombie come malattia curabile. È più facile parlare di sindrome post traumatica e della difficoltà di ricominciare a vivere ricordando di aver sbranato delle persone. Anche Warm Bodies, il romanzo di Marion, addomestica l’orrore attraverso un’ipotesi interessante: mangiando il cervello di un essere umano il singolo zombie (la differenza è importante, non è già più orda indistinta) percepisce in un bagliore sprazzi dei ricordi immagazzinati in quel cervello. La brama diventa più accettabile: è quella di memoria e consapevolezza. Ce l’abbiamo tutti.

Per me gli zombie sono proprio quelli di George Romero o di The Walking Dead: esseri lenti, sfigurati, impacciati, ma innumerevoli, spinti da una forza inarrestabile. E un po’ di tempo fa erano ovunque, sulla carta, sullo schermo, nei miei sogni.
Nell’ultimo di questi sogni ho atteso di sentire il familiare grattare sulla porta della stanza d’albergo in cui mi ero rifugiata, l’ho spalancata e ho piantato con precisione una matita ben temperata nella tempia destra dello zombie, uccidendolo all’istante. Ricordo di aver pensato, nel sogno: «Ecco, hai visto, hai imparato a ucciderli; adesso non devi più aver paura». Mi dispiace quasi di non averli più sognati, da allora, perché come sterminatrice di zombie mi ero sentita astuta, capace di controllo, non più indifesa. Ero riuscita a spostare nel sogno il know-how acquisito durante le innumerevoli ore di visioni e letture. Pochi giorni dopo, tornando da Torino, sono scesa alla stazione di Brescia dal treno per trovarmi in un assembramento di zombie. Quasi tutti giovanissimi, truccati perfettamente, vestiti di stracci, si chiamavano e si telefonavano, «Oh! Noi siamo qui in stazione. Voi dove siete?» Ho scoperto, deliziata, che la mia città ospitava la Parata degli Zombie, una specie di grande marcia, e ricordo di aver pensato: «Finalmente è tramontata la figura del vampiro fighissimo e immortale. Go zombie!».
E adesso dove sono finiti? Where have all the flowers gone? La più famosa delle serie TV, The Walking Dead, chiude i battenti, il fumetto finisce, e dall’immaginario collettivo sembra parzialmente sparita questa figura così simbolica, così potente, che ho sempre identificato con le masse informi e temibili che l’occidente cerca in ogni modo di tenere fuori dai propri confini. Corpi animati da una spinta irrefrenabile, per noi inconcepibile. Sono tantissimi, più di noi, e con il loro morso potrebbero trasmetterci la peggior malattia che l’Occidente riesca a immaginare: la povertà.
Sopravvive qua e là qualche film e l’espediente narrativo non diventerà mai vecchio. Mi auguro che, così come Twilight non è riuscita a uccidere il vampiro come archetipo, anche lo zombie sopravviva, e con lui il campo semantico, la pianura che d’improvviso brulica di corpi incerti e barcollanti, che vanno avanti, e avanti, e avanti.

Quando guardi moltissime serie tv, come faccio io, puoi avere la sensazione subliminale che qualcosa stia cambiando, che il focus si modifichi. Milioni di immaginari ti affollano la testa, e avverti lo spostamento di un baricentro. Stiamo assistendo a uno slittamento del campo semantico per gli zombie? Alla metafora delle folle impoverite rischia di sostituirsi quella delle le folle inferocite?

In questo periodo sto guardando Cobra Kai, una serie che riprende, in modo molto divertente, un film che ha nutrito l’immaginario epico di un’intera generazione: Karate Kid. Jon Hurwitz, Hayden Schlossberg e Josh Heald, gli autori, ci raccontano la storia di Johnny Lawrence, il perdente del film originale, un bullo violento che, plagiato da un sensei sociopatico, si distrugge la vita seguendo la regola fondamentale del dojo in cui ha passato gli anni della formazione: No Mercy. Nessuna pietà. È bello vedere lo stesso attore – William Zabka, invecchiato benissimo – che si muove sullo scenario del fallimento completo, familiare  e professionale, ai limiti dell’indigenza, sempre ubriaco, sempre incazzato. È lo stesso bullo di trentacinque anni fa, ma patetico e alcolizzato. Suo malgrado intraprenderà un cammino di redenzione che passerà, di nuovo, attraverso il karate.

Mark Fisher, in Realismo capitalista, dice che «il capitalismo è quel che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale». E, ancora, «il risultato è un consumatore-spettatore che arranca tra ruderi e rovine». Vi ricorda qualcosa? Il controllo della narrazione e dell’immaginario, attraverso l’informazione e l’entertainment, è uno strumento potentissimo, e la mossa formidabile è convincerci che, come diceva Margaret Thatcher già ai tempi di Karate Kid, «There is no alternative», non esiste un’alternativa. Pensiamo alla descrizione delle proteste provocate dall’uccisione di George Floyd, che hanno attraversato gli Stati Uniti per poi propagarsi ad altre nazioni europee. All’ipocrisia con cui molta televisione e molti giornali ci hanno raccontato il terrore dell’abbattimento di una statua, quella di un uomo perbene, un filantropo che ha creato la propria ricchezza con il commercio di schiavi, in un’epoca in cui era un business fruttuoso  e normale. Le rivolte non sembrano aver fermato le violenze della polizia. Nuovi omicidi e nuovi riots.
Qualche giorno fa mangiavo in mensa e sul maxischermo che perseguita le mie pause pranzo scorrevano scene di folla inferocita e non potevo non sentirmi spaventata e, in qualche modo, parte di quella folla.

Il mio problema personale, invece, è che la violenza fisica la conosco bene. Che la casa sia un inferno è quasi una banalità e io l’ho scoperto fin da quando tra le mura domestiche mi misuravo con un gigante dalle mani enormi che, aperte o strette a pugno, mi grandinavano sulla testa senza un perché. Bastava ridere nel momento sbagliato o rovesciare un bicchiere. Ribollivo di odio e furore impotente. Fantasticavo di omicidi e coltelli. Eppure, o forse proprio per questo, sono cresciuta con un enorme rispetto per le Forze dell’Ordine. Anche quando cresciuta è rimasta in me l’immagine residua del poliziotto che ti salva dal malfattore.

Nel luglio del 2001 ero a Genova e, con un rovesciamento spettacolare, in un posto dentro di me, un posto infantile e fiducioso, le Forze dell’Ordine sono diventate quelle del Disordine e della Sopraffazione. Le mani gigantesche che mi tormentavano quando ero una bambina erano di nuovo lì, manganelli impugnati da persone vestite come Robocop che sfilavano sui blindati, imbracciando mitragliatori, mentre scappavo in mezzo ai gas lacrimogeni tossici che mi facevano venir voglia di sdraiarmi sul selciato e morire. Ricordo la gente in lacrime e non solo per i gas, ricordo il vagare come zombie per le vie di una città che ci ha a volte riparati in giardini e portoni e altre terrorizzati con il sangue sull’asfalto del pestaggio appena avvenuto, ricordo la massa nera dei picchiatori in divisa che arrivava come una marea. Non dimenticherò mai il rumore dei nostri piedi sul selciato.
Correvo velocissima insieme a centinaia di altre persone in un panico collettivo e incredulo.
E sì, adesso che ammazzano Willy ammazzano un po’ anche a me, e vorrei anche io scendere in strada e distruggere a mazzate qualcosa di simbolico, non so, la vetrina di una banca, un ufficio governativo, una stazione di polizia. Anche io. Io che non riesco neanche ad alzare la voce quando litigo.

La mia narrazione è cambiata, in modo irreversibile. La narrazione ufficiale, no. Sono sempre gli zombie i cattivi, quelli che vengono per mangiarci, per portarci via il lavoro, per occupare le nostre case, per prendere i nostri soldi e mandarli in nazioni lontane. E hanno fame, hanno più fame di noi.
Sono le folle che sfondano le vetrine dei negozi, i cattivi, che rubano oggetti che ci vengono offerti quotidianamente con sconti solo-per-le-prossime-tre-ore tra un post di Facebook e l’altro.
I cattivi sono quelli che si muovono in massa e non sono controllabili, perché sono troppi.
Gli zombie, appunto.

E adesso sullo schermo non vedo più uno zombie neanche a cercarlo. Vedo invece Cobra kai. Nella serie lo stile del Karate insegnato in due diversi dojo si pone come contrapposizione tra incitamento alla violenza e sua regolamentazione e normalizzazione.
E non è un caso.
La violenza di una folla indistinta e minacciosa è stata sostituita nel nostro immaginario dall’aggressività personale che può e deve essere codificata ed espressa in termini accettabili sul tatami, con un inchino rituale che precede il contatto fisico, rigorosamente uno contro uno.

In questa trasformazione dell’immaginario intravedo un modo subliminale per farci dimenticare le ondate migratorie di persone che sono disposte a rischiare la vita per arrivare sulle nostre spiagge inospitali. O le cariche di polizia, quella per esempio in cui hanno massacrato il mio concittadino Paolo  Scaroni alla stazione di Verona, sfociata in un processo in cui i giudici hanno ammesso che la polizia l’ha reso disabile ma, siccome in Italia  ancora non abbiamo i caschi con il numero identificativo, non era possibile individuare un reale colpevole.
È un modo per dirci che la rabbia impotente che proviamo può essere normalizzata in un luogo in cui vigono delle norme appositamente create. E quindi liberi tutti.

Scegliete un’arte marziale, una di quelle classiche, con millenni di codifica, una nobiltà intrinseca, e imparate che l’aggressività, al di fuori dalla pratica del business, può essere liberata esclusivamente sul tatami del dojo. Nel totale rispetto del vostro avversario, con un sensei che vi osserva, vi incita, ma è attento a che non portiate il colpo scorretto, che corromperebbe la vostra anima, oltre che essere un fallo punibile. Poi, tutti a casa. Sul divano, o davanti alla tastiera del pc.

Sono assolutamente favorevole ad un’educazione all’aggressività consapevole, con delle regole, ce le hanno anche i lupi, ed è più che giusto che anche gli agnelli imparino a difendersi. E’ una cosa buona distinguere la violenza dall’aggressività, e usare la seconda per indirizzare la prima verso uno scopo fondamentale, per esempio evitare o correggere un’ingiustizia. Per conto mio, più dojo e meno centri commerciali, non c’è dubbio.
Ma la scomparsa di quei personaggi barcollanti e affamati che si riversavano, nel film di Romero, dai cimiteri ai centri commerciali, mi inquieta. Mi inquieta il muro assurdo immaginato da Trump, come mi inquietano i muri invisibili eretti nel Mediterraneo dalla fortezza Europa per difendersi da barconi carichi di umani, uomini e donne, bambini, neonati, che vogliono solo mettere piede su una spiaggia, farsi una doccia, mangiare, partire per raggiungere parenti dispersi nel continente e cercare di farsi una vita.
Lo slittamento del focus dalla violenza non regolamentata a quella ritualizzata non riesce a sembrarmi casuale.
Guardando moltissime serie TV mi risulta evidente come esprimano in pieno non solo lo spirito del tempo, ma, con qualche eccezione, siano anche strumenti con cui il modello sociale si protegge, utilissimi alla sua conservazione, alla sua sopravvivenza: oscurando qualunque alternativa vitale, politica, spirituale.
Amo Cobra Kai, non posso farne a meno: è una storia di redenzione.
Ma mentre guardo sullo schermo di una TV silenziosa, in una mensa comunale, la folla di Bristol che affonda nell’Avon la statua del mercante di schiavi Edward Coston, penso che gli zombie ci sono ancora. Solo che stavolta sono dalla loro parte.

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