Io sono altri

Arabella Strange | Strani anelli |

Il mostro arboreo fuori dalla mia finestra ha resistito a tutte le tempeste di vento, finora. È un pino che è cresciuto con poco sole, all’ombra di un acero e un abete vecchissimi che sono stati sradicati dal vento due anni fa. Adesso gli arriva più luce ed è cresciuto ma è rimasto così esposto, con quel tronco che sembra un po’ uno stecchino. In alto i rami si piegano e formano una faccia. Non puoi vederla di giorno; solo di notte, diventa quella di un mostriciattolo allegro, con gli occhi di cielo buio. Mi sembra sempre che stia ridendo, piccolo demonio. Se dovesse schiantarsi durante un’altra tempesta mi sentirei un po’ come se avessi perso un amico, o una parte di me. Una parte allegra e infernale, un po’ come i diavoli  ne Il maestro e Margherita. Dormo al sicuro nel mio letto mentre lui sta fuori e oscilla piano e sogghigna.

L’intelligenza delle piante, semisdoganata solo nel 2006 da un gruppo di plant scientist (Eric Brenner, Stefano Mancuso, František Baluška e altri) con la pubblicazione dell’articolo “Plant neurobiology: an integrated view of plant signaling” sulla rivista “Trends in Plant Science”, ha scatenato la bagarre nell’ambiente della Plant Science. Gli autori sostengono un’idea rivoluzionaria: le piante sono in grado di interagire in maniera sofisticata con l’ambiente in cui vivono, al punto che si possono definire dotate di intelligenza. Non solo, alcune strutture presenti nelle piante potrebbero essere alla base di integrazione ed elaborazione delle informazioni ambientali – e della produzione dei corrispondenti “comportamenti” – allo stesso modo dei neuroni del cervello negli animali.
Già pochi giorni dopo, trentasei scienziati da tutto il mondo firmano una lettera indirizzata alla rivista in cui esprimono “preoccupazione”: questa nuova disciplina non porterà nulla di utile agli studi di fisiologia vegetale! Non esiste, nelle piante, nulla di simile a neuroni e cervelli!
Stanno ancora discutendo. Ma mi piace quel che dice Paco Calvo, della Universidad de Murcia: «L’intelligenza non ha a che fare con l’avere un cervello e dei neuroni [ma] con il comportamento stesso». E condivido l’accusa di antropocentrismo che lancia Stefano Mancuso. Siccome gli animali fanno problem solving con il movimento, l’idea di un diverso stile, basato su un’immobilità – peraltro relativa, perché il time lapse ci mostra chiaramente che le piante si muovono, solo su una scala temporale diversa – è controintuitivo. Manda in crisi.
Bisognerebbe anche ridiscutere tutto il pensiero vegano.
Comunque, mentre i plant scientist litigano, vorrei tanto che le neuroscienze entrassero nel dibattito.
Magari il mio diavolo verde se la ride veramente. Ah ah, voi giganti siete andati giù come birilli, io sono ancora qui, un po’spelacchiato, ma attraverso i buchi dei miei occhi certe notti si vedono brillare le stelle.

Durante il lockdown ho letto un libro meraviglioso, This Is How You Lose the Time War di Amal el-Mohtar e Max Gladstone. È un romanzo epistolare di fantascienza nel quale si immagina uno scontro protratto tra due strutture di un futuro lontanissimo: The Agency, che rappresenta un’umanità che ha trasceso la carne fino ad essere quasi interamente meccanica e astratta, pura intelligenza in gusci bionici, e The Garden, in cui gli esseri umani si sono evoluti in creature affini a una specie vegetale, assimilandone strategie e comportamenti. Le due agenti di punta delle organizzazioni,  Red e Blue, si lasciano i messaggi sui campi di battaglia dove cercano di alterare o viceversa mantenere il corso della storia nei vari flussi temporali in modo tale da assicurare il futuro in cui vivono, due futuri paralleli e contrapposti. Red e Blue, che vengono definite due “she” anche se poco hanno ormai di umano per come ci consideriamo noi umani ora, attraverso questo infinito scambio di messaggi finiscono per innamorarsi, e quando una delle due dovrà distruggere l’altra troverà, come fanno gli innamorati, così affini agli psicotici, un modo impensabile per salvarla. I nostri corpi per ora non si sono modificati di molto, abbiamo meno capelli, stiamo perdendo i denti del giudizio e anche i mignoli dei piedi fra un po’ scompariranno. Però, non so perché, io d’istinto mi sono identificata con l’agente del Garden, Blue, e ho pensato che non mi dispiacerebbe trasformarmi in un albero.

In un vecchissimo racconto di fantascienza si raccontava di una specie senziente di alberi, alti migliaia di metri: uno di loro, distrutto da un temporale immane, riesce a trasferire la propria coscienza e le proprie facoltà a un uomo ferito, fondendosi con lui. L’uomo che diventa il compagno di viaggio di questa intelligenza aliena sa che a un certo punto, fra qualche secolo, potrà fermarsi in un luogo e mettere radici, e trasformarsi in un altro gigante vegetale, un albero immobile, immenso, pronto ad assecondare il vento, a volgere le foglie verso la luce, e vivere centinaia, forse migliaia di anni, pensando, respirando, assolto da tutto ciò che di noi è mobile, rumoroso, angoscioso. Sarà transumano. Sono molto affascinata dal transumano.

Nel primo racconto capolavoro di Richard Matheson, Born of man and woman, pubblicato nel 1950 sul “Magazine of Fantasy and Science Fiction” e tradotto in Italia come Nato d’uomo e di donna, un bambino, che viene tenuto incatenato nella cantina dai genitori, ci racconta la sua vita. Leggi il racconto provando pena per questo bambino che non può mostrarsi, non può lasciarsi vedere dagli altri, viene continuamente sgridato e allontanato quando quello che vuole è solo essere amato e vivere, ma qualcosa non torna. Però nel finale il bimbo dice «E ho una brutta rabbia contro mamma e papà. Gliela farò vedere. Farò quello che ho fatto già una volta. Strillerò e riderò forte. Correrò sui muri. E alla fine mi metterò a testa in giù con tutte le gambe e riderò e schizzerò di verde per tutta la cantina fino a che non saranno dispiaciuti che non mi hanno trattato bene. Se cercano di picchiarmi di nuovo gli farò male. Lo prometto.» Allora, capisci che è probabilmente una specie di bambino ragno e come in uno starnuto cerebrale fortissimo smetti di considerarlo umano e ti trovi con il tuo corpo astrale di lettore che vaga, perché è stato espulso dal protagonista del racconto e deve tornare dentro di te, e all’umano, frastornato. Perché quella cosa che si arrampica sui muri e sul soffitto e sputa roba verde non è umana; è altro, eppure tu, per un po’, hai abitato i suoi pensieri.

Perché l’altro non è solo un altro, è un mondo completo. C’è un format ricorrente di discussione con alcune mie amiche. Il dialogo si svolge più o meno così:
Amica: «Cazzo! Però non è giusto che X viva in una casa antica con incluse rovine romane e io vivo in un bilocale di merda!»
Io: «Ok, ma sei pronta a prenderti tutto il pacchetto? Non solo la casa romana ma anche, per esempio, il marito palloso, la vita oppressa dai rituali della famiglia di lui ricca e arrogante, la totale mancanza di progetti e interessi? Te lo beccheresti tutto?»
Amica: «Ah… beh, no…»
Ecco.
È difficile voler veramente essere lui, o lei. Vorremmo restare noi stessi e prenderci il pezzetto che ci interessa, ma non funziona mai così.
L’invidia è un sentimento che mi mette talmente a disagio! Non quella piccola, parlo di quella colossale alimentata dalla frustrazione, è così disturbante che nel mio albergo interiore ho dovuto darle un nome e una forma in modo che potesse parlare, ogni tanto, altrimenti io la negherei sempre, quella cosa scura e viscida che ti resta incollata addosso. Invece, in forma di piccola pixie verde e furibonda, ha diritto di parola. Esattamente come tutte le altre parti di me. Quindi sì, a volte sono invidiosa, a volte non mi riconosco, eppure quello che sento continua a essere me. O, almeno, una parte di me.

Capita di sentirsi alieni a se stessi. Per esempio adesso, durante un attacco di depressione, mi resta comunque un pezzetto che si rende conto dell’assurdità del tutto, ma è una piccola creatura aggrappata a uno scoglio in mezzo a un mare in tempesta, se ne sta lì e aspetta che la piena scenda, se ne sta lì con i suoi pensieri lucidi, il suo senso del tempo e, dopo tanti anni, l’incrollabile fiducia nel fatto che la tempesta si calmerà, l’acqua schiumosa si ritirerà e potrà di nuovo camminare sulla terra. Ma in quel momento il comando dell’io lo ha preso una parte enorme, oscura, tumultuosa, un lento terremoto che frantuma la visione del mondo e dei suoi abitanti: io sono un’altra? Sono sempre io? Qual è l’alterità vera? Come è possibile essere così divisi da non poter governare le proprie azioni, i propri pensieri eppure rendersene conto da un osservatorio di sanità mentale così piccolo che ci si può stare al massimo accucciati? Ho imparato l’attesa. Ho inventato un mantra: Aspetta È Una Parola Bianca.

L’io così come lo conosciamo è solo uno stato. Basta una piccola alterazione del cervello e il mondo cambia. Into the silent land, in italiano Nelle terre del silenzio: viaggio nella zona buia della mente umana di Paul Broks è un libro strano. L’autore, tra le altre cose, si pone una serie di domande sulla natura dell’Io. Per far questo inventa degli esperimenti mentali filosofici, tra i quali questo, che mi pare preso di peso da un libro precedente di Daniel Dennett e Douglas Hofstadter, L’Io della mente. Facciamo che il teletrasporto esiste, ed è congegnato in modo da distruggere la me stessa originale per ricrearmi identica altrove. Cosa succederebbe se per un errore di funzionamento io, la vecchia me, continuasse ad esistere mentre altrove la mia copia si ritrovasse a essere un doppio? Saremmo due persone diverse o la stessa? Non è una domanda da poco, perché se fossimo la stessa persona la vecchia me andrebbe eliminata. L’autore fa notare che bastano pochi secondi di esperienza non più condivisa da parte delle due copie per renderci due creature diverse. La mia nuova me non sarebbe più me, ma una persona diversa, che respira un’aria diversa, parla con altre persone e sviluppa impercettibilmente nuovi pattern mentali. Quindi Broks è per la conservazione di entrambe le Arabelle. A me sembra che in realtà se qualcuno mi distruggesse per creare una copia, la nuova me sarebbe comunque qualcun altro, anche solo per il fatto di essere composta da atomi diversi. Eppure ogni cinque anni, sette al massimo, tutti gli atomi che ci compongono vengono sostituiti da altri. Ma noi restiamo noi. O così crediamo. È l’organizzazione che resta, ma siamo un po’ alle prese con il paradosso della nave di Teseo. Leggendo il libro ho scoperto anche che la neuroscienza non riesce assolutamente a localizzare la sede di un Io: ci sono strutture su strutture che si integrano, si sovrappongono, si alternano. È evidente che tutte queste strutture sono governate da qualcosa di unitario, ma non si riesce a capire cos’è, dov’è. Broks dice che questa entità sfuggente e, in questo momento, inspiegabile, viene da qualcuno chiamato il narratore. Euforia! certo che il mondo è narrazione, e quando a scuola ho studiato Hume e il suo fascio di sensazioni ho pensato: «Certo, David, siamo un fascio di sensazioni unite da qualcosa di magico che ci fa dire: questa sono io, questa ero io e quella sarò io domani, perché il tessuto dell’universo non può che essere composto da narrazioni». L’universo della coscienza, almeno; per quanto riguarda gli atomi non so, ma la fisica quantistica ci racconta che le loro particelle fanno cose parecchio strane.
L’entanglement, per esempio: due particelle generate insieme che continuano a rispecchiarsi anche se allontanate, e consentono di manipolare la prima modificando la seconda. Questa cosa mi fa pensare al doppelgänger che abita tantissime storie, da La metà oscura di Stephen King a visioni più sfuggenti come quella di un mio amico che ha visto se stesso passare a bordo di un furgone, e mi ha raccontato questa allucinazione brevissima con un disagio che mi si trasmetteva come un formicolio.
Il doppelgänger è, letteralmente, quello che passa due volte.

E subito penso al doppio più facile, quello di ogni giorno: il nostro riflesso nello specchio.
Lo specchio più famoso è certo quello della Regina di Biancaneve.
Quando si guarda nello specchio e gli chiede «Chi è la più bella del reame?» cosa vede? Non certo il proprio riflesso, ma lo specchio stesso, che pure è così intimamente parte di lei che quando le risponde che non è più lei la più bella ma Biancaneve la distrugge completamente, rendendola vecchia pazza e assassina, facendole sacrificare il proprio corpo perfetto con un incantesimo per poter distruggere l’avversaria, la nuova abitante dello specchio, quella che è ora la più bella. Non importa che lo specchio ce l’abbia in mano lei, è sparita dalla sua superficie lucida, è come se fosse già morta. L’entanglement di Biancaneve e della Regina è lo specchio: una diventa la più bella, e l’altra un mostro orribile.

Il mondo è relazione. Per questo esiste il tempo. È inconoscibile perché ogni volta che lo raccontiamo lo smontiamo e rimontiamo, e cambiamo i nostri ricordi semplicemente parlandone. Il Narratore sa il fatto suo. Uno degli Altri per eccellenza, il replicante, in  fondo in cosa è diverso da noi? Roy Batty ha un corpo assemblato in un laboratorio, ma in fondo anche la pancia della nostra mamma è un laboratorio. Ha una vita breve e ricordi innestati, ma anche i nostri ricordi non sono piccole pietre immutabili. Sono forme organiche che cambiano.

Ho sempre amato un racconto che ho letto in una raccolta di premi Hugo, Time Considered as a Helix of Semi-Precious Stones. L’ha scritto Samuel R. Delany nel 1968, e ha un titolo talmente meraviglioso – Il tempo considerato come una spirale di pietre semipreziose – che non servirebbe neppure la storia, bellissima e super triste. Nella galassia esiste un underground di tossici, criminali, emarginati che si riconosce attraverso una password che cambia nel tempo e viene comunicata verbalmente, da persona a persona, ed è sempre il nome di una pietra semipreziosa. Tra quelli che conoscono sempre la parola ci sono i Cantori, esseri umani che cantando il mondo, lo decodificano e aiutano a mantenere la pace sociale. Sono delle rockstar, ma portano un fardello pesantissimo. Non a caso è anche la storia di una relazione sadomasochistica tra il protagonista, un trafficante di uranio, quando lo incontriamo, e il Cantore Hawk, un ragazzino che sotto la giacca di pelle è pieno di cicatrici.
Quel titolo, che mi ha folgorato, me lo porto dentro da anni. Come tenere il conto di tutte le persone che siamo state dal giorno in cui siamo nate a oggi? Forse usando un codice fatto di nomi di gemme, ambra, giada, corniola, ametista, rodocrosite, che ci aiuterebbe a capire: quel che eravamo non è quel che siamo, eppure c’è una continuità, una spirale che si allarga ed è la nostra vita.

In uno degli episodi più terribili di Black Mirror, la serie tv ideata da Charlie Brooker, una parte della nostra personalità può essere digitalizzata e inserita in un apparato che la rende una intelligenza artificiale al nostro servizio, una specie di segretario/calendario: per fare questo l’identità digitale, il nostro doppio, viene torturata e ridotta all’obbedienza. Perciò nell’episodio ci sono persone che allegre e serene usano una versione abusata, traumatizzata, e schiava di sé per ricordarsi di andare in palestra. La metafora ovviamente ci racconta anche di come ci assoggettiamo a ritmi che non ci appartengono per conformarci a un modello di vita che ci viene offerto come eccitante: fare tremila cose al giorno, calcolare il tempo in ore punto minuti.

Invece se fossi un albero, magari Ent come quelli descritti da Tolkien, il mio tempo scorrerebbe in modo diverso da quello degli umani, cioè da quello che sono ora: sarebbe lentissimo, i dialoghi sarebbero fatti di scricchiolii e fruscii e una parola potrebbe durare ore.
Ma sarei radicata alla terra e protesa verso la luce, la fotosintesi mi renderebbe un filo tra cielo e terra e forse non avrei bisogno di parlare molto. Mi basterebbe esistere.

Questo strano anello dsi compone di:

  • Eric D. Brenner, Rainer Stahlberg, Stefano Mancuso, Jorge Vivanco, František Baluška, Elizabeth Van Volkenburgh, “Plant neurobiology: an integrated view of plant signaling”, in “Trends in Plant Science”, Volume 11, Issue 8, agosto 2006, pagine 413-419.
  • Amal El-Mohtar, Max Gladstone, This Is How You Lose the Time War, Simon & Schuster, 2019.
  • Richard Matheson, Nato d’uomo e di donna, 1950, l’edizione italiana più recente è in Richard Matheson, Duel e altri racconti, Fanucci, 2005.
  • Paul Broks, Nelle terre del silenzio : viaggio nella zona buia della mente umana, Longanesi, 2011.
  • Stephen King, La metà oscura, Sperling & Kupfer, 2014.
  • Jacob e Wilhelm Grimm, Biancaneve, dovendoti consigliare un’edizione scelgo Tutte le fiabe: prima edizione integrale, pubblicata nel 2015 da Donzelli, con illustrazioni di Fabian Negrin.
  • Samuel Delany, Il tempo considerato come una spirale di pietre semipreziose, l’edizione più recente è del 1995, in “Classici Urania” 216 dedicato a I premi Hugo 1969-1971 (un anno prima lo stesso volume era stato pubblicato negli “Oscar Mondadori”).
  • Black Mirror: White Christmas, 2014, scritto da Charlie Brooker e diretto da Carl Tibbetts.

Per forgiarlo ho bevuto tanta acqua e mi sono esposta alla luce naturale e al vento.

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