L’oscurità ci circonda – Guida, Cristo, guarda dove vai!

Arabella Strange | La cassetta degli attrezzi |

«As I sd to my
friend, because I am
always talking,—John, I

sd, which was not his
name, the darkness sur-
rounds us, what

can we do against
it, or else, shall we &
why not, buy a goddamn big car,

drive, he sd, for
christ’s sake, look
out where yr going.

Ho letto per la prima volta I Know a man (Conosco uno) di Robert Creeley in una raccolta di poeti americani tradotti, credo, da Fernanda Pivano. Creeley, nato nel 1926 e morto nel 2005, era il nome di punta del gruppo conosciuto come Black Mountain Poets. Non so quando abbia scritto questa poesia, che suona più o meno così: «come dicevo al mio / amico, perché parlo / continuamente –  John, ho / detto, che non era neanche il suo / nome, l’oscurità ci cir- / conda, cosa / possiamo fare per combatterla, / oppure, dovremmo & / perché no, comprare un macchinone del cazzo, / guida, ha detto lui, Gesù /  Cristo, stai / attento a dove vai.»
Non so in che anno l’abbia scritta, ma di tutta l’antologia è quella che ricordo a memoria. Mi sono sempre sentita lui, la voce che parla continuamente, circondata dall’oscurità, con la sensazione che tanto vale spendere centinaia di euro in scarpe e libri per non pensarci, e vaffanculo. Ma non riesco a non pensarci: se l’oscurità ci circonda, cosa possiamo fare contro di lei?
Ho sempre amato la letteratura americana. Colpa della fantascienza e della mia incredibile profe di italiano del ginnasio che, senza esitazione, mi ha fatto deragliare dai programmi ministeriali per farmi scoprire Emily Dickinson, Jack Kerouac, Ezra Pound, e tantissima altra roba buona: the shit, direbbero i miei autori. Poi vengono gli inglesi, ovviamente, e poi Dino Buzzati. Ma gli americani o, meglio, gli statunitensi hanno plasmato il mio immaginario. Amen. È andata così. E sono andata incontro all’oscurità armata delle loro parole, corazzata dal loro modo di vedere il mondo, e crescendo ho capito quanti errori e pregiudizi ciò comporta, e ho compensato come potevo, ma dentro di me è la voce di Creeley che parla, da tantissimo tempo, e non sto neanche attenta a dove vado.

Ho scoperto Joe R. Lansdale leggendo un racconto su Batman in un numero di “Urania”, poi quando The Bottom, In fondo alla palude, è stato tradotto da Fanucci con una copertina che aveva una grafica che mi piaceva l’ho comprato e ho scoperto che era lui, quello di Batman. Ho pensato: è To kill a mocking bird quarant’anni dopo. E Il buio oltre la siepe, com’è stato tradotto fantasiosamente e un po’ leopardianamente in Italia, è il mio libro preferito, quello indiscutibile, la casa a cui tornare quando serve. E il tipo che lo aveva attualizzato era lo stesso del racconto di Batman! E poi ho scoperto la saga di Hap & Leonard, mi sono innamorata. Ho parlato a lungo con Lansdale a Mantova molti anni fa. Ci ha concesso una lunga intervista. Io e Sancho che eravamo lì per una radio radicale e di movimento non credevamo ai nostri sensi: quell’uomo ha chiacchierato con noi per un’ora, la gente in coda ci odiava, ma io ero inebriata, abbiamo anche parlato di Buffy The Vampire Slayer, del fatto che lui e sua moglie erano in sostanza gli unici due democratici del Texas, e che quando un redneck gli scriveva che aveva sempre odiato froci e negri ma che leggendo le storie di Leonard, nero, gay e repubblicano, si era posto delle domande, lui era felice. Pensavo: ecco, è questo. Questo è il mio mondo, anche se sono nata e cresciuta in una grossa città di provincia del nord Italia, io capisco meglio questa roba qui che quello che dovrebbe essere il mio retaggio culturale. L’entusiasmo, l’ignoranza che consente di misurarsi con tutto, l’innocenza stronza, il coraggio, la passione e la libertà di fregarsene dei generi, delle contaminazioni… ed è ancora così, anche se adesso ho capito che, un pochino, stavo passando al lato oscuro della Forza.
Perché i razzisti, i nazisti dell’Illinois, il Klan, i linciaggi, la polizia che ammazza gli afroamericani, l’imperialismo, la bigotteria oscena, il culto della guerra altrove, sacrificando i propri figli insieme a quelli degli altri ma not in my backyard, non nel proprio cortile, sono essenziali alla narrazione di cui mi sono innamorata, tanto quanto lo sono la lotta per i diritti civili, il rock’n’roll e Kurt Vonnegut. Anzi: sono una parte enorme del racconto ma, come per la materia oscura, lo capisci dagli spazi vuoti.

Guardo tante, tantissime serie tv. Da anni. Negli ultimi undici anche di più perché conduco un programma sulla serialità televisiva alla radio in cui lavoro nel mio giorno libero, lunedì. Undici anni fa era una cosa da pionieri. Venivamo schifati dai cinefili del martedì, adesso non c’è testata che non abbia uno spazio dedicato. E non potrebbe essere altrimenti, la capacità di creare storie lunghe e articolate, di far crescere i personaggi, di prendere nota in itinere delle passioni del pubblico per adattare spunti narrativi e rendere protagonisti personaggi secondari, è qualcosa che col cinema non c’entra, siamo in due territori completamente diversi. Le serie tv sono lunghi romanzi con le figure in movimento. E guardandone molte puoi avere la sensazione di passaggi fondamentali.
Adesso le storie atroci e nascoste della segregazione razziale, per esempio, grazie a sommosse e morti innocenti, sono diventate così appetibili da fornire materiale a Warner, Paramount, HBO e produrre roba come Watchmen o Lovecraft Country.

Allora: quando ho visto in Watchmen il massacro di Tulsa credevo fosse fiction. Poi ho aperto Wikipedia e sono stata male.
E adesso ho scoperto che Lovecraft, H.P., lui, quello di Dagon – piccolo gioiello perfetto – e del ciclo di Cthulhu, del Necronomicon, della Miskatonic University e di Arkham, era un razzista. Ma proprio un razzista spaventoso. Almeno da giovane; più avanti ha scritto, in una lettera, che il suo razzismo era «un errore giovanile da parte di uno che conosceva il mondo troppo poco», e ha amato un’unica donna, Sonia Green, ebrea. Però lui li odiava, gli ebrei, gli ispanici, i cinesi. Hitler gli stava inizialmente simpatico, e a ventidue anni ha scritto, in On the Creation of Niggers, che «le bestie […] erano troppo lontane dall’umanità. / Per riempire la distanza, e ricongiungere il resto all’Uomo, / gli ospiti dell’Olimpo […] scolpirono una bestia in figura semi-umana, / la riempirono di vizio, e chiamarono la cosa Negro».
Erano questi i suoi mostri? Mi sono sentita tradita.
Matt Ruff l’ho scoperto anni fa con La casa delle anime, un romanzo oggi introvabile se non in biblioteca in cui si racconta della complessa relazione tra due persone che hanno personalità  multiple. Complesso e bizzarro, il libro mi era piaciuto e ha certamente alimentato la mia passione per la creazione di io divisi ma dialoganti e consapevoli. Ho scoperto stanotte che il romanzo da cui è tratta Lovecraft Country, la serie tv, l’ha scritto lui. E, in un gioco rispettato dalla trasposizione visuale, ha giocato con i mostri. In modo spiazzante.

Lovecraft parla dei mostri, degli antichi dei e delle creature inumane con una tecnica che, per esempio, Isaac Asimov ha dichiarato di odiare. Perché nei suoi libri la tensione cresce, cresce, ma poi l’apparizione del mostro è indescrivibile. Se questo per Asimov era un anticlimax, per me è l’essenza stessa del fascino che quei libri hanno su di me. Curiosamente, penso che entrambi siano grandi creatori di storie e scrittori mediocri. Ma tra l’Umanista Asimov e Lovecraft non potrebbe esserci più distanza. Nelle storie di Lovecraft la realtà è sempre una superficie sottile, opaca, che si fa a tratti trasparente e rivela l’orrore. Nient’altro. Un orrore indescrivibile, reale, che prende la pancia, perché parla di qualcosa di indicibile, alieno, folle, di una perdita di senso che sconvolge la percezione, sconquassa i sensi, annichilisce la volontà. Siamo ospiti. Siamo fragili. Siamo minuscoli giocattoli di creature inimmaginabili, e percepirle non può che far impazzire.
E per questo io lo amo. Ma sto vivendo una analoga perdita di senso scoprendo, grazie a prodotti commerciabili come Lovecraft Country, cos’è davvero l’orrore, e quanta parte aveva, trama invisibile, ordito bianco e osceno, nel mondo di parole e di idee in cui la mia mente e il mio cuore hanno abitato per tanti anni.

Le Jim Crow Laws, le leggi segregazioniste dei democratici del sud, smantellate con fatica e a poco a poco negli anni ’50 del secolo scorso in gran parte grazie al coraggio della Corte Suprema di Earl Warren – un altro che però ha segregato i giapponesi dopo Pearl Harbor e poi si è pentito pubblicamente di aver strappato i bambini dalle loro case sull’onda emotiva dell’attacco – sembrano scritte da Nyarlathotep, l’emissario ed esecutore di «Azathoth: dio cieco e idiota… amorfa escrescenza d’abissale confusione che bestemmia e gorgoglia stordito da un incessante suono di flauti».
La schiavitù, le violenze, la totale mancanza di diritti e di sicurezza, nemmeno quella di sopravvivere, sono i mostri di Lovecraft Country. Mi faceva notare un amico che, infatti, i mostri si vedono quasi subito. Sono belli, ma molto comprensibili, salvo qualche complicazione nelle fauci doppie, nelle molte file di denti. L’orrore, puro e indiluito, e incomprensibile e indicibile, per me, è vedere che, in presenza di un bianco, qualunque persona nera perde ogni diritto umano, è la Cosa Negro di Lovecraft.
E, come le cose, può essere usata, rotta, e buttata via.

Le critiche alla prima stagione sono in generale positive. Mi ha colpito Maya Phillips di “The New York Times” che la accusa di «sfruttare [il passato] per scopi funzionali alla sua trama complicata». Ma siccome si riferisce alla strage di Tulsa e al funerale di Emmett Till,  un quattordicenne di Chicago torturato e ucciso, mentre era in visita ai parenti nel delta del Mississipi, da due uomini bianchi, con la possibile complicità di altre dodici persone, per aver fischiato a una donna bianca, io mi arrabbio. No, Maya. Io non sapevo niente di Emmett, e del suo funerale a Chicago con la bara aperta perché la madre voleva che tutti vedessero il corpo massacrato del figlio, del processo terminato con l’assoluzione dei colpevoli che poi, grazie al ne bis in idem, hanno confessato di averlo ammazzato, della copertura mediatica e della militarizzazione del tribunale, con le persone nere sedute nell’apposita zona separata. Magari avevo letto il suo nome nell’elenco delle vittime della brutalità dei bianchi nel sud, ma non avevo capito la pervasività di questa violenza.
Ora, dopo George Floyd, qualcosa sta cambiando.
Non dico che sia perché le persone sono meno cattive e ignoranti. Mi limito a rilevare che HBO considera remunerativo trasmettere una intera serie con un cast di attori di colore – tra cui il mio amato Michael K.Williams, Omar Little di The Wire, Leonard Pine di Hap & Leonard – e due o tre attori caucasici che fanno i malvagi.

Cory Doctorow, più volte candidato ai premi Hugo e Nebula, nella recensione sul blog “Boing Boing” del libro da cui è tratta la serie, commenta: «non servono Antichi Dei per sperimentare l’orrore. I protagonisti lo vivono nelle loro esistenze quotidiane in forma di tormento, violenza, espropriazione, e l’eredità della schiavitù che per loro è tutto tranne che storia antica.»
Vorrei che qualcosa di simile accadesse alla storia della colonizzazione italiana in Africa. Narrazione, visibilità, memoria. Per tutti – o almeno, per quelli che hanno l’abbonamento a una piattaforma di disseminazione di serie tv. Non so, Le notti difficili di Buzzati ambientate in Somalia.

Quindi, se l’oscurità ci circonda, cosa possiamo fare per combatterla? Comprare un macchinone del cazzo?
No, bisogna cercare di entrare nel racconto, finalmente. E cercare di farlo ascoltare a quante più persone possibile, anche a quelle come me, di buone intenzioni, ma un po’ ignoranti. Lovecraft Country vende spazi pubblicitari? Bene, segno che il pubblico è ampio. E non mi sembra che questo addomestichi o normalizzi nulla: semplicemente, come l’amico di Creeley che non si chiamava John, ci richiama a stare attenti, Cristo, a dove stiamo andando.

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