SinESTesia

Arabella Strange | Rorschach |

Non amo viaggiare. Nel mondo, intendo. L’ho fatto e probabilmente lo farò ancora, ma mentre gli anni passavano e io mi ritrovavo lontanissima da casa, perdevo mio marito in aeroporti di città improbabili, in mercati e stazioni ferroviarie e restavo paralizzata e furiosa aggrappata al mio bagaglio, mentre lo sentivo contrattare un passaggio nella brousse della Casamance, o ordinare piatti misteriosi e pesantissimi in ristoranti, casupole, alberghi, mentre lottavo con scarafaggi grandi come bamboline o in piccoli sciami volanti, che picchiettavano il buio oltre la finestra, imparavo che non amo spostarmi. Ogni volta pensavo: quanto è fortunata una lumaca! O chi gira in camper! Eppure ero circondata dalla bellezza, e non sono insensibile alla bellezza, anzi, i miei viaggi erano un groviglio di sindrome di Stendhal, terrore, litigi, pianti, esaltazione, adattamento forzato, meraviglia, dialoghi personalissimi condotti in approssimazioni di varie lingue con sconosciute e sconosciuti, attese, e perdermi, perdermi, perdermi, e comprare cose, e perdermi, e non avere più alcuna dignità o orgoglio, perché l’immagine che prende forma nella mia mente se penso viaggio non sono i colibrì della California, i tulipani del mercato di Amsterdam, i prati della Bulgaria o l’oceano grigio azzurro del Senegal, è una figurina irrigidita dall’ansia con una valigia, ferma, in mezzo a gente che passa parlando mille lingue, e si guarda intorno cercando la sua guida.
Poi mio marito, che invece è un nomade, mi ritrovava, e litigavamo. E poi i viaggi erano bellissimi, come quando abbiamo seguito il Danubio giù per i Balcani e siamo arrivati in Grecia, e poi in Turchia. Ho tre o quattro quaderni di viaggio, pieni di annotazioni e biglietti, cartoline, scontrini incollati amorosamente. Ma il viaggio per me è quella creatura inutile e disorientata che si aggrappa a valige sempre brutte, un po’ rotte, troppo piene, e si guarda intorno disperata, cercando di controllare il respiro, uno… due… tre… quattro…
Maledizione.
Viaggiare cambia così tanto i circuiti del cervello. Dopo essere partita pian piano le cose si aggiustano e, nonostante il mio deficit drammatico nell’orientarmi, raccolgo un sacco di ricordi emozionanti. Colori, colori, colori. Ma ogni volta che abbandono la mia casa, anche adesso, io passo attraverso la panicosfera. Mi perderò? Per sempre?

Ho riletto Murder on the Orient-Express, stavolta in inglese. È stato uno dei primi libri da grandi che ho letto, poco dopo è arrivata la fantascienza, ma con Agatha Christie ho stabilito un legame di complicità da subito, a nove, dieci anni. Ho amato tutti i suoi trucchi, le sue invenzioni, e anche se ho un penchant per Miss Marple, Hercule Poirot ha un posto nel mio cuore. Leggere Christie in inglese è un’esperienza particolare. Murder, per esempio, è uscito l’1 Gennaio 1934, la prima guerra mondiale era finita da un po’, la seconda non era ancora alle porte, e l’Impero britannico si stendeva come una coperta gigantesca su gran parte del pianeta. Rileggere il romanzo in lingua originale mi ha fatto pensare due cose. La prima: è scritto in un inglese che, nelle descrizioni ma soprattutto nei dialoghi, mi catapulta in un mondo che non esiste più, in cui i nomi dei luoghi vengono sciorinati con nonchalance, ma gli inglesi giudicano gli americani, che giudicano i francesi, che giudicano gli italiani, che giudicano gli inglesi. Gli accenti e le storpiature di quella che si accingeva a diventare La Lingua del Mondo sono riprodotti spietatamente in bocca agli stranieri. Il mondo di Christie è irreale e pieno di stereotipi. Lo sapevo, ma l’immersione nell’inglese degli anni ’30 del secolo scorso è un viaggio di per sé.
La seconda: a differenza di quel che ricordavo, questo Orient-Express sta tornando in Europa. Non è una anabasi, ma una katabasi. Il treno bloccato nella neve e la storia straordinaria ordita dalla autrice sono orientati, come l’ago di una bussola, verso Trieste, Milano, Parigi. E’ un treno che torna a casa. La mia, intendo.
Ah, c’è una terza cosa che mi ha colpito. Tutti chiamano Istanbul – dal greco εἰς τὴν πόλιν (eis ten polin, ovvero “verso la città”) – “Stamboul”, e questo cambia, nel mio cervello, il colore della città.
Perché, non l’ho detto, ma a me viaggiare piace. Solo, non nel mondo esterno. L’universo dentro, invece, va benissimo: lì dentro mi piace anche perdermi.

Il colore della città, del suo nome, come di ogni parola, è importantissimo. Ne ha parlato ampiamente Marcel Proust: ho cercato quel che diceva di Parma, la città dove ho studiato, e ho ritrovato il nome Parme, che per Proust era «compatto, liscio, dolce e color malva». Ma per Proust è una questione non solo di suono (spiega Paola Musarra in un saggio sulla traduzione proustiana che Parme, una sillaba, non va tradotto in Parma, due sillabe, perché «è in virtù di quella sillaba pesante che [a Parma] “non circola aria”»), ma di “correspondences”: tra il nome della città, la «dolcezza stendhaliana» e il «riflesso delle violette».
Per me, invece, il solo suono ha un potere cromatico fortissimo. Da sempre i giorni della settimana hanno un colore specifico, e così pure i nomi propri, e molte delle parole che mi piacciono.
E siccome non amo viaggiare, e il mio livello di ignoranza della geografia è spiegabile solo con una analoga mancanza di senso dell’orientamento che mi affligge da sempre, ma amo i suoni e i colori, mi concedo di giocare con i nomi delle fermate principali della tratta Simplon dell’Orient-Express, il favoloso treno passeggeri messo in servizio dalla Compagnie Internationale des Wagons-Lits, che collegava Parigi-Gare de l’Est a Costantinopoli. Negli anni ’30 del secolo scorso, quando l’assassino della piccola Daisy Armstrong sfuggito alla giustizia viene pugnalato dodici volte da tragici e ammirevoli vendicatori organizzati nel wagon-lit bloccato dalla neve tra Vincovci e Brod e tocca a Hercule Poirot scoprire la geniale e ingarbugliata soluzione, il treno è all’apice della sua fama, un simbolo di lusso e comodità in un’epoca in cui i lunghi viaggi sono ancora pericolosi. Io provo a ripercorrerne il percorso al contrario, verso Est, verso quel che è lontano.

Paris è color lavanda, suona come un campanellino, e profuma di brioches, ma sfiorando la parola coi polpastrelli puoi sentire le guglie di mille chiese gotiche, come se accarezzassi un riccio d’argento. Lausanne è rosa, acquatica, un fiore di loto, e fa il rumore di una tazza di porcellana che cade su un tappeto. Milan, grigio argento, elastica, vellutata, ti si disfa tra le dita come nebbia o polvere di piombo e calce, ma se non la tocchi puoi vedere gli strati di smalti trasparenti che la tengono insieme. Venice ha il colore dell’alba, rosa e azzurro, e ti avvolge come una sottilissima sciarpa di seta, con le frange morbide, e il vento salato lo fa frusciare. E Trieste è gialla, ma sa di cioccolato, e ha le punte come una stella tagliente, e se spegni la luce non è più gialla, ma bianca, tremante, immensamente luminosa. Vincovci – Brod, ci sono passata in treno davvero, quindi difficile separare suoni e ricordo, ma Vinkovzi (così si pronuncia) è un bicchiere di vetro spesso, dipinto di foglie verdi, e un’ape si è posata sul bordo. Brod è marrone, caldo colore di legno autunnale. La d finale è il punto in cui il legno è stato segato, e puoi contare i cerchi, e sentire sulla lingua il sapore dei panini caldi intrecciati, coi semi di papavero, annusare un fuoco acceso, da qualche parte. Beograd, azzurro! Azzurro, azzurro, con macchie di nuvole bianche che passano, e rintoccano come campane. La parola va su e giù, su e giù, e torna indietro e ricomincia. C’è un occhio che guarda dalla O centrale, nero, intento, scrutatore. Sophia è una piuma, galleggia nell’aria, candida come una colomba, spruzzata d’oro appena appena, con un tocco di rosa. Profuma di vaniglia e latte caldo. E alla fine eccoti, Istanbul, blu lapislazzulo, lucido, smaltato, notturno, circolare. Sei la testa della Medusa, immersa nell’acqua, intorno a cui pesci enormi nuotano al buio. Questo ti renderebbe vagamente verde e gialla, ma il tuo suono è il fischio di un merlo, e sei sempre più blu, anche se ti ho visto inondata di sole, nera la notte, illuminata da lucine da circo, scintillante di ogni colore io riesca a immaginare. Costantinopoli è un tappeto morbido di un milione di colori, lana e seta, arance e limoni, gelsomini e lame taglienti. Ma Stamboul è blu come un Sol. E ha il profumo del te rovesciato su un cuscino.

Non amo viaggiare, nel mondo, credo. Mentre elencavo i suoni e i colori mi è venuta voglia di sorvolare ognuna delle città-suono che ho elencato. La mia bussola è sbagliata, ma sono sensibile alla musica, e allo spettro della luce. Vi vorrei vedere tutte all’alba, appena prima che il cielo si illumini. Non credo né alla giustizia né alla vendetta, e la storia che avviene sul treno mi affascina, ma quel che mi tiene viva è la bellezza, e la bellezza, ding!, coloresuono, è sempre con me.

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