Come fanno due tronchi a dar vita alla lotta più epica di sempre

Beniamino Malacarne | Squared Circle |

dell’Onorevole Beniamino Malacarne (Stefano Tevini)

Chiedimi qual è quel match che riassume tutto il senso del wrestling. Quel match che sintetizza il significato dell’aggettivo “epico”. Quel match che, più di tutti, esprime il mio modo di viverlo, il wrestling: è quello che succede intorno al ring, che fa grande quello che succede nel ring. Ti risponderò sempre allo stesso modo.
Primo aprile 1990. Skydome di Toronto. Wrestlemania VI. Hulk Hogan contro Ultimate Warrior per il titolo mondiale WWF (che adesso si chiama WWE, come accennavo nello scorso articolo, per via di una contesa con quegli altri del panda. Tra l’altro c’è una maglia carinissima che riassume la questione, con due panda che si prendono a sediate in pieno stile wrestling. Mi sa che prima o poi me la compro pure).

Premetto che, tecnicamente, il match non è niente di che. Ultimate Warrior è un tronco. Hulk Hogan saprebbe fare di meglio ma per l’occasione si adegua. Riescono a metterci pure un paio di errori nel prendersi i tempi, e per non farsi mancare nulla ci piazzano un paio di bracci tesi tirati davvero col culo. Tecnicamente, conosco ventenni che nei loro match fanno cento volte tanto, alla velocità di una mitragliatrice. Tecnicissimi, di un atletismo esasperato. Non di meno, c’è qualcosa che questi bravi, anonimi giovani in mutande e addominali scolpiti non riusciranno mai a trasmettere, a differenza dei due tronchi che hanno fatto il match più epico di sempre.
Emozioni.
Epicità.

Due divinità che si affrontano.
Ogni pugno è un fulmine che cade al centro dell’arena.
Ogni volta che un corpo colpisce il suolo, the crowd goes bananas.

E questo non lo ottieni con trecento mosse in quindici minuti, no. Lo ottieni raccontando una storia. Lo ottieni con i promo, così si chiamano le sfide che i wrestler si lanciano prima dei match per far salire l’adrenalina. Hogan che pompa i muscoli, che si rivolge ai suoi Hulkmaniacs, i suoi fan fedelissimi a cui deve la cintura di campione che porta alla vita. Ultimate Warrior, che si lancia in una tirata meravigliosamente disarticolata, con i grugniti, gli occhi spiritati e ogni traccia di senso logico nel discorso che va a farfalle dopo tre secondi da quando apre bocca. Che roba, gente, che roba. Il campione amato da tutti contro l’astro nascente. L’attesa a mille.

Me lo sono guardato senza tirare il fiato, credo che il mio cuore non abbia battuto per quella mezz’ora.
Entra Warrior, con quella musica che lo rappresentava alla perfezione, Unstable, un riff di chitarra elettrica tiratissimo. Sale sul ring. Scuote le corde. Fa il gesto con cui chiama gli antenati.
E poi Hogan, che fa il suo ingresso e viene letteralmente già l’arena. Una bomba atomica sempre.
Quando tutti e due sono sul quadrato, l’elettricità la vedevo da casa, roba che a momenti mi saltano le valvole del televisore, allora mica c’erano i led, gli schermi piatti e tutte quelle menate lì, erano tempi semplici. Ci esaltavamo con poco.
Fatto sta che inizia ‘sto match, con dei tempi lentissimi. Perfetti per valorizzare ogni singolo gesto. Gli sguardi. Le spinte. Una prova di forza interminabile. A ogni collisione scoppia un ordigno termonucleare. A ogni cambio di fronte ci manca poco a sputare il cuore lì sul cotto del salotto della casa dei miei nonni.
Si prendono il loro tempo, Hogan e Warrior. Lottano piano, vanno a due all’ora, come i giganti.
Razionalmente l’avrei capito solo dopo, che stavano dando importanza a quello che facevano. Lì per lì vedevo solo un combattimento assurdo fra due divinità stellari. Vedevo la loro fatica. I capelli di Hogan, fradici di sudore. Le pitture di guerra sul volto e sul petto di Warrior quasi del tutto cancellate. E tutti i momenti classici del repertorio. Il doppio KO, con i due avversari che si alzano dopo diversi secondi. L’arbitro colpito e atterrato per sbaglio che si perde almeno un paio di schienamenti decisivi. Ultimate Warrior che si gasa con quella sua danza sciamanica, invulnerabile per qualche secondo con la furia di un berserker. Poi si gasa Hogan, con il suo Hulk Up, gran bicipiti sbattuti in faccia al pubblico e momento spaccaculi anche per lui. Warrior che alza l’asticella dell’epicità sollevando Hogan sulla testa. E quel finale tiratissimo, con Hogan che liscia il leg drop, la sua mossa, finale aprendo il fianco per la big splash che vale a Warrior il conto di tre.
L’arena esplode.
Warrior è campione.

Prima di lasciare il ring, Hogan prende la cintura di campione del mondo e gliela passa in un gesto sportivo e simbolico, un passaggio della torcia che non si è mai concretizzato. Sì, perché Ultimate Warrior da campione non convinceva, ha perso il titolo mesi dopo per non rivincerlo mai più, imboccando la via di un declino aiutato dal suo stesso atteggiamento spesso un pelo troppo sopra le righe e poco incline alla diplomazia. Hulk Hogan, dal canto suo, è rimasto in sella ancora a lungo, rivoluzionando il wrestling almeno due volte nel corso della sua carriera. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia. Quel che resta di questo main event pazzesco è un concentrato ad altissima gradazione di wrestling, praticamente le Gocce Imperiali del wrestling, solo che in questo caso non ti sbronzi male e non vomiti dopo il secondo shottino.
Perché il wrestling è emozione. E Hulk Hogan e Ultimate Warrior, nel ring, sono stati proprio questo: emozione pura.
Quattro mosse in croce, ma te li ricordi ancora adesso.
Anzi, a dire il vero mi sono rivisto il match proprio per scrivere questo pezzo, e ho ancora i brividi.

E a modo mio, tutte le volte che salgo sul ring, porto con me quella mezzora incredibile del primo di aprile del 1990, allo Skydome di Toronto.

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(Quasi)