Memorie di un wrestler da cucciolo

Beniamino Malacarne | Squared Circle |

dell’Onorevole Beniamino Malacarne (Stefano Tevini)

“The Million Dollar Man” Ted Di Biase mi punta il dito contro. A me. Proprio a me. Indossa uno smoking viola con il segno del dollaro sul bavero. Al suo fianco Virgil, la guardia del corpo, conta i soldi del suo capo con i bicipiti che sembrano scoppiar fuori da un gilet senza maniche che simula a sua volta uno smoking. Alle loro spalle Andrè The Giant è enorme, il mastodonte spaventoso che solo a guardarlo mi si gonfia, appena sopra l’inguine, quella bolla di solletico che col tempo ho imparato a identificare con la paura. Al centro del trio, Mean Gene porge il microfono a Ted Dibiase. Alle loro spalle, la silhouette dei continenti su sfondo blu con quel logo color oro, WWF, World Wrestling Federation. Siamo ancora lontani dalla disputa con quegli altri, quelli del panda, che avrebbe trasformato la federazione in WWE, World Wrestling Entertainment, comodo alla dirigenza della promotion visto che se fai “Entertainment”, intrattenimento, non devi render conto a nessuno in materia di doping, fatto di per sé fastidioso tenendo conto che molti degli atleti della suddetta federazione sono gonfi come zampogne per via di abitudini farmacologiche che è meglio che l’ultima lettera sia la E di Entertainment. Ma queste pippe mentali sono di là da venire. Adesso c’è il malvagio miliardario che mi punta il dito, a me, un pistolino di nove anni o poco più, dallo schermo di un videogame, quelli di una volta, i cabinati di legno decorati con quei disegni pazzeschi, un po’ space opera e un po’ minchia che trip. Sto vivendo uno di quegli interminabili pomeriggi estivi, quando finisce la scuola e ti sembra di avere davanti una vita prima che settembre ti arrivi sul collo. Po scopri che s’era nascosto dietro l’angolo. Sono alla Casa del Popolo, uno dei luoghi del mio cuore, andando avanti a leggere i miei pezzi vi domanderete se ho un cuore e la risposta è evidentemente sì, o quantomeno l’avevo, poi boh, giudicherete voi.

Quel videogame, per me, è stato l’inizio di tutto. Con i videogiochi ho imparato un botto di cose, con buona pace di chi dice che sono nocivi. Ci ho imparato l’inglese, prima ancora che al liceo, ma questa è un’altra storia. Quel videogame era difficile come tutti i videogame del tempo, mica come adesso che hanno la curva di apprendimento e tutte queste smancerie da fighetti, noi si metteva dentro una monetina e si saltava in trincea, riflessi da gatto e la pietà di una vespa mandarinia. E ci ho speso un capitale, roba che sarei io, adesso, “The Million Dollar Man”, ma a nove anni non è che ci pensi. Sono testa di minchia alla soglia dei quaranta, levami trent’anni e fatti due conti. Che poi non è tanto il gioco che sì, mi piaceva e tutto, ma erano proprio questi momenti di contorno, che davano uno spessore narrativo al tutto, che davano un senso, per me che amo raccontare storie e ancor più farmene raccontare, alle botte che piovevano generose in forma di pixel sul cranio dei personaggi da me controllati. Per me il wrestling è cominciato con le animazioni rudimentali dei lottatori che si facevano la passerella verso il ring fra due ali di pubblico adorante dietro le transenne. E quell’intervista. I cattivi del gioco, pixellati anni Ottanta, ti facevano capire che i cazzi amari per te dovevano ancora arrivare. In quel frangente mi sono detto «Wow. Il pubblico, le luci, le interviste. Il wrestling è una roba grossa!». E ho iniziato a guardarlo. A tifare in piedi sul divano urlando, a correre in giro per in quartiere fingendo di essere Ultimate Warrior che corre verso il ring a scuotere le corde. Warrior era incredibile, in uno dei prossimi pezzi ve ne parlo, di un momento epico a livelli assurdi che lo vede protagonista, ma non adesso. Adesso  vi sto raccontando cosa ha portato me, al ring. Perché forse non lo sapete, ma sono un lottatore di wrestling.

Anzi, al catch, perché all’epoca i grandi se lo ricordavano come “catch”, perché avevano visto il wrestling giapponese commentato da Toni Fusaro sulle reti locali. Un maestro, Fusaro, nell’invenzione di quegli elementi di cornice che danno uno spessore narrativo alla vicenda. Diceva di trasmettere in diretta da Tokio. Un genio. Ricordo un cabinato, nel paese natio della mia nonna, che aveva il cartellino “catch” scritto a mano attaccato sopra lo schermo. Quei dettagli futili che ti fanno commuovere. Una ventina d’anni dopo aver risanato i conti di un piccolo stato africano a colpi di duecento lire per giocare al wrestling, anzi, al catch, ho iniziato ad allenarmi, con una federazione italiana. «Ah, ma esiste una federazione italiana?». Al momento credo più di una decina. Sì, lo so, ci conoscono in pochi. In pochi l’avrebbero detto. E invece ci siamo. E la cosa che ancora mi piace, del wrestling, sono quei momenti. Noi li chiamiamo promo. Le sfide lanciate davanti alla telecamera, o quando afferri il microfono e quello diventa un parafulmine che catalizza l’emozione del pubblico. Nel mio caso l’odio, perché se prima di dire «figata, un articolo che parla di wrestling!» e partire in quarta a leggere hai letto il nome dell’autore, non avrai potuto fare a meno di notare la dicitura “Onorevole”. Proprio così, sul ring, io sono un politico. Lo scellerato deputato. E allora per forza che mi vuoi vedere a terra. Schiantato. A subire il conto di 1…2…3! A cedere per una presa di sottomissione.

Forse. O forse no. Perché se all’ultimo momento tiro fuori una scorrettezza mi porto a casa il match e tu lasci l’arena con le palle girate. O forse no, perché il gioco è questo. Chi te lo fa fare, di tifare il buono se dall’altra parte non c’è un buon cattivo? Uno che te lo fa sudare, il tuo eroe che alza la cintura. Prima lo mena, lo schiaccia, lo tortura. Te lo devi guadagnare, il lieto fine, figlio mio. Voglio che sputi la laringe sul ring. Voglio che ti spelli le mani prima di applaudire. Voglio che quando finalmente vado per terra venga giù il palazzetto tanto sei contento. Perché se è così, io sono diventato “The Million Dollar Man”, e quando ti punto il dito, tu sei diventato me, in quel pomeriggio interminabile e sudato di inizio agosto, con i compiti delle vacanze ancora da fare, in ginocchio su una sedia con il vimini della seduta che ti segna la pelle e le monetine appoggiate nel l’incavo in metallo che i ragazzi più grandi usavano come posacenere. Significa che ho fatto quadrare il cerchio. Perché questo è uno dei soprannomi più belli che gli anglofoni danno al ring. Squared circle. E in quei brevi minuti elettrici, sotto i riflettori, fra le corde, per me è esattamente questo. 

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