«La perfezione sensuale di un istante»

Francesco Pelosi | Fuori tempo |

Si apre il 2021, e come ogni anno non riesco a distrarmi dal fatto che questo numero non rappresenta la mia storia ma quella di chi gran parte di essa ha indirizzato. La sfortunata coincidenza ch’io sia nato all’interno di una famiglia di stampo cristiano, e che per questo sia stato battezzato con rito cattolico, non significa necessariamente che mi debba riconoscere con questo modo di scandire il tempo lineare.
Certamente, avere un’unità di misura condivisa (o comunque accettata) da tutto il mondo è comodo. Ma all’inizio di ogni anno, quando si grida entusiasti «viva questo numero!» o «viva quest’altro!», mi trovo sempre a disagio. Intendiamoci, è un disagio personale, nulla che coinvolga chi è intorno a me. Non riesco però a far mia questa condizione di festa, dettata da una cultura dogmatica, violenta e mistificatoria (a Natale e Pasqua, ovviamente, mi trovo nella stessa condizione).

Fra i tanti mali che le religioni monoteiste hanno inflitto all’umanità, c’è quello fondamentale della pretesa frattura, della dicotomia, fra mondo umano e mondo divino. Frattura e dicotomia che, secondo lo studioso Franco Volpi, troviamo già in Platone, ovvero all’origine della cultura europea e occidentale tutta. In un bel saggio intitolato Il nichilismo (Laterza, 1996), Volpi dice che «l’atto originario» di questa forma mentis «è già presente nella fondazione della dottrina dei due mondi a opera di Socrate e Platone, vale a dire nella postulazione di un mondo ideale, trascendente in sé, che in quanto mondo vero è sovraordinato al mondo sensibile, considerato invece come mondo apparente».
Se esistono due mondi e uno è più reale e “giusto” dell’altro, il trovarsi a vivere in quello “sbagliato”, porterà a una diminuzione del valore di quest’ultimo (il mondo degli umani) oltre che a una sensazione di irraggiungibilità verso il primo (il mondo di Dio) e a una sua idealizzazione. Come concetti del genere, reiterati lungo i secoli e quindi divenuti pensiero comune (e qui sta il grande potere del pensiero filosofico e  dell’immaginario che ne deriva), possano portare alla svalutazione dell’essere umano nei confronti di sé stesso e dell’idea di Dio (e dei suoi sacerdoti), è chiaro. Ma secondo Volpi, che chiama in causa Nietzsche, questa dicotomia porta anche all’esatto opposto, ovvero alla crisi di quelli che sono considerati “valori” e quindi alla nota affermazione sulla morte di Dio.

Quando Nietzsche scrive «Dio è morto» fa riferimento alla caduta di tutti quei valori, personali e condivisi, che fino al XIX secolo governavano la società e gli umani, e in cima a questi  c‘è ovviamente la religione (anche se, come dicevo all’inizio, i suoi rituali permangono). La caduta degli dei apre la porta al tipo di pensiero che ha governato indubitabilmente il secolo XX, procedendo fino a oggi: il nichilismo.
Se un tempo si era convinti che la vita nel suo apparente divenire portasse con sé un senso o uno scopo da raggiungere – una felicità e un amore universali, un’armonia sociale, un ordine morale – con il nichilismo «si capisce che col divenire non si mira a nulla, non si raggiunge nulla […]». Non esiste più nell’orizzonte umano un fine da raggiungere, o un’unità primigenia e definitiva che sostiene la vita, così com’è impossibile rifarsi a un qualsiasi tipo di verità.

Scrive Volpi, prendendo ancora da Nietzsche: «Quando si fa chiaro che “non è lecito interpretare il carattere generale dell’esistenza né col concetto di fine, né col concetto di unità, né col concetto di verità”, si finisce per inibire ogni principio organizzatore e ogni trascendenza e per ammettere come unica realtà il mondo nel suo eterno fluire e divenire: il problema è che quest’ultimo appare privo di senso e di valore. Quindi “non si sopporta questo mondo che pure non si vuole negare”; le categorie “fine”, “unità”, “essere”, con cui avevamo introdotto un valore nel mondo, ne vengono da noi nuovamente estratte e ora il mondo appare privo di valore».

Se i valori umani, gli dèi che la nostra specie ha creato nel corso della sua storia, non possono più esistere nell’unico luogo dove sono reali, ovvero nella nostra mente, non resta che il mondo materiale, quello che percepiamo con i sensi. Platone indicava con mondo reale quello iperuranico delle idee e degli dei, mentre con mondo apparente, quello degli uomini. Collassato il primo, collassa conseguentemente anche il secondo. Non c’è più un rapporto definito fra ciò che è sensibile e ciò che non lo è. Ecco che allora l’organizzazione umana viene meno, così come il suo “scopo” e i “valori” che di società in società si sono susseguiti. Anche il “bisogno di verità” si sfilaccia e decade e con esso il credere negli ideali.

«È questa la forma estrema del nichilismo: il nulla (la “mancanza di senso”) eterno!», afferma Nietzsche. E Volpi commenta: «(…) non dobbiamo pensare soltanto che la vita non si prefigga nulla e che, come il volgere dei pianeti, nulla insegua nella sua corsa se non sé stessa: come quelli percorrono milioni di chilometri per continuare semplicemente nella loro orbita, così la vita fa tutto ciò che le consentono la meccanica, l’energia e il cosmo – e null’altro. Ma dobbiamo pensare inoltre che tutto questo ritorni eternamente. La conclusione di Nietzsche è coerente: “Il carattere complessivo del mondo è caos per tutta l’eternità”».

A questa conclusione accartocciata su se stessa, di un razionalismo innegabile, viene istintivamente da associare la letteratura prodotta da H. P. Lovecraft e il suo immaginario, accolto tiepidamente mentre era in vita, la cui fama è però esplosa alcuni decenni dopo, rimanendo fondante fino a oggi. Com’è noto Lovecraft e i suoi epigoni trattavano di un mondo razionale che viene sconvolto da incursioni di esseri esterni, grandi e antichi dei, talmente caotici nella forma da risultare inconcepibili per una mentalità basata su valori e credenze ormai crollate. Lovecraft descrive dunque la morte degli dei tradizionali tramite l’avvento delle sue divinità indescrivibili, provenienti dal nulla per riportare tutto al nulla, e mettendo in scena così l’avvento del nietzschiano “caos per tutta l’eternità”. Il pensiero nichilista più estremo.
Quando nell’ultima scena di Rosemary’s baby, il seminale film di Roman Polanski, che di certo molto deve a Lovecraft, Sidney Blackmer nei panni dello stregone Roman Castevet/Steven Marcato esclama che «Dio è morto!» davanti alla culla dell’anticristo, pare proprio riferirsi all’avvento dello stesso pensiero adoratore del nulla che Nietzsche e i suoi contemporanei battezzarono come Nichilismo.

Dinnanzi a questo «sostenere che ogni fede, ogni tener per vero sia necessariamente falso», punto in cui il pensiero comune della nostra specie sembra essere orgogliosamente arrivato, mi ritrovo estraneo, quasi come dinnanzi al calendario cattolico.
Fortunatamente, non è necessario riconoscersi con il tempo in cui si vive, né conformarsi con modi e pensiero comuni, come ad esempio con l’altro grande paradigma contemporaneo di stampo nichilista che misura la qualità di un’opera in base al suo venduto.
E al retorico quesito brechtiano sul rapinare o fondare una banca, non smetterò mai di voler comunque rispondere: rapinarla non è nulla a confronto del Nulla che genera il fondarla.

Sentirsi fuori tempo non significa ovviamente l’esserlo per davvero, negando in questo modo l’evidenza di una connivenza  o di un esserne «comunque coinvolti». Ma alle orde voraci del Nulla, quel Nulla medesimo che divora Fantàsia nella Storia infinta, si possono almeno opporre minuscole e disinteressate roccaforti della natura, dei gesti e del pensiero.
Fra queste, lucente come un’epifania, un motto del colombiano Nicolás Gómez Dávila:
«Solo una cosa non è vana: la perfezione sensuale di un istante».

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