La grolla: Oh, Claire

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Una donna, una sedia, un pollo. A Copi bastavano questi elementi per costruire il racconto a fumetti. Un argentino a Parigi, che si muove all’interno della strana comunità di argentini a Parigi (quella di Cortázar, per intenderci), racconta, una settimana dopo l’altra, il sentire di un’epoca sulle pagine de “Le Nouvel Observateur”. Poi, a un certo punto, smette. E quando un gigante lascia un buco, il pericolo è enorme. La natura aborre il vuoto; la realtà potrebbe collassare. Mica lo so dire il culo straordinario che hanno avuto quel settimanale francese e l’umanità tutta: a sostituire Copi arriva una gigantessa. E la sedia su cui la donnina vergata con due tratti si afflosciava come un sacco diventa un divano.  E là sopra si alternano figura femminili, quasi sempre con la sigaretta in mano, che non hanno paura di dichiararsi umane. Hanno letto Marcuse e sanno tutto del suo uomo a una dimensione. E con quella consapevolezza, benché costruite con un contorno preciso e veloce che nega anche solo l’ipotesi di una terza dimensione, sono donne a tutto tondo. Pronte a raccontarci la storia in presa diretta. Un giorno alla volta. [PI]

Un giorno alla volta apro quell’albo gigante nel bagno. Agrippine mi fa compagnia la mattina al risveglio. Una striscia per volta. Una pagina al giorno. Non di più. Finita la striscia, la lascio decantare, la porto con me nel mio corpo tutta la giornata e non ci ripenso, è lei che pensa a me, come spesso i personaggi dei fumetti fanno. Ti pensano e tu il giorno dopo te le ritrovi di nuovo davanti a te, nel mio caso, in bagno. [AF]

Dalla finestrella del bagno, che lei lascia sempre leggermente aperta, riesco a passare… forse un po’ a fatica. Con un colpetto della testa e strusciandomi in quello spazio angusto riesco a entrare e, cadendo sul pavimento, crollo su quello strano oggetto che le vedo aprire ogni mattina. Certo che ha delle strane abitudini, anche se quella non è certo la più particolare. Almeno le ho insegnato per bene le buone maniere e mi ha preparato una ciotola con la quantità giusta di tonno e dell’acqua con cui risciacquarmi la bocca. Leccandomi i baffi, mi faccio un appunto mentale di farle capire che è meglio che la prossima volta il tonno lo prenda al naturale, non con quell’olio che sa di scarafaggio. Mi stiracchio un po’, salto sul divano e finalmente mi posso acciambellare sul cuscino. Si prospetta davvero una fantastica giornata. [OM]

E invece no. Neanche il tempo di rilassarmi che me la ritrovo in casa. Anzi, peggio, sul mio divano, sulle mie coperte, col suo sederone ingombrante e, come se non bastasse, in compagnia della sua amica petulante! E gnegne e gnegne. Non lo lascia! È inutile che glielo ripeti! Fa comodo sia a lei che a me. Senza il suo stipendio ce lo sogniamo il cibo di prima scelta. E ricordati, non sono neanche sposati! Perderebbe tutti i privilegi e le toccherebbe perfino annientarsi in un ufficio a lavorare. [LL]

Meglio invece non averci proprio a che fare con l’ufficio, oppure, se proprio non si può far di meglio, mollarlo ogni qualvolta si può. Mollare il cartellino, l’officina, la fabbrica, persino il divano di casa con il WiFi che ti fa credere il telelavoro una comodità, e vagabondare per quelle vie piene di bancarelle, quei lungo fiume buquinisti dove potresti trovare reperti rari, mai più ristampati e per questo (da alcuni) mai visti. Cose come i libri di Claire, per l’appunto. QUASI ha fin dalle prime uscite una rubrica dedicata ai consigli per editori distratti, ma qui si tratta di editori immemori. Insomma, qualcuno rimetta in circolazione, per esempio, i Frustrati. E se il timore riguarda gli incassi, niente paura. L’identificazione, ci hanno insegnato le star del fumetto autobiografico, è l’unica cosa che fa vendere tanto. [FP]

Cento frustate! E un calcio in culo, anche. Ci si sente pessimi. La giornata non ha fine. fuori piove sottile, il lavoro è finito, o da cominciare, che orrore, si finisce per buttarsi sul divano, accasciarsi, mica perché si è tristi, perché è bello perdere la forma solida e accettare il divano, che accetta te con i suoi cuscini morbidi, in un abbraccio che può durare all’infinito. Poi mentre stai lì ti vengono in mente cose, e a volte le dici a voce alta, con l’intonazione giusta. Il divano crea una sensazione di stallo per troppa saggezza accumulata.  O consapevolezza dell’ignoranza, che è quasi lo stesso. E se pesi 130 chili di saggezza devi lasciarti andare sul divano, non il letto, quello è per dormire e dimenticare tutto, il divano serve a ricordare e mettere ordine. A volte vorresti avere un blocco e una matita per appuntarti alcune interessanti illuminazioni, puoi provare a ripeterle per vedere se il suono, l’eco contro le pareti, ne conserva la legittimità e ne migliora la memoria. Ma niente. Quel che è pensato e detto sul divano, resterà sul divano. E il rumore della pioggia, irresistibile, ti sposta sul canale dei sogni. Immagini. Straccetti di ricordi. Dov’è il plaid?
Ma il telefono suona. Porcaputtana. [AS]

E chi altri poteva essere a rompere i coglioni?! Se non quell’adolescente nevrotica di Agrippina! Dice che per forza che è nevrotica, dato il mondo in cui le tocca muoversi che abbiamo costruito noi, è praticamente come una bolla di quelle per i pesci rossi. Dice che la stiamo trascurando, che è tutta la settimana che parliamo solo di quella generazione di frustrati dei suoi genitori. Forse perché sono così uguali a noi. Lei dice: a voi. Secondo me a ragione. Ci identifichiamo così tanto con quegli adulti sul divano, anche perché parlano la nostra stessa lingua. Così diversa da quella di Agrippina e dei suoi coetanei.
Una volta Emilio Tadini, credo fosse il 1990, ha detto/scritto che Agrippina e la sua generazione utilizzano la propria lingua (lui mi sembra lo definisse gergo, ma io lo trovo sminuente) con rigorosa e ostinata fatuità. E che questo gergo sarebbe il guscio vuoto di una Superiore Complessità, un sistema esoterico basato su un’effimera verità che conoscono solo loro e che li porta a credersi superiori alle generazioni precedenti. Manco a dirlo che Tadini scriveva una cazzata, tanto per riempire la pagina che gli toccava per la prefazione a un volume di Bretécher.
La verità è che Claire sapeva benissimo che, al di là di qualche differenza di significante

la lingua di entrambe le generazioni che ha raccontato, hanno gli stessi significati e la stessa disperata verità. [BB]

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