Intermezzo n. 2: Mind Game II

Omar Martini | La corsa dell’oritteropo |

Com’è noto, Cerebus fa parte di quella manciata di pubblicazioni, come Love & Rockets dei fratelli Hernandez, Teenage Mutant Ninja Turtles di Kevin Eastman e Peter Laird, Elfquest di Wendi e Richard Pini e Usagi Yojimbo di Stan Sakai, che tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta furono gli apripista negli Stati Uniti di quell’ondata che, per un breve periodo di tempo, diede l’illusione che ci potesse essere un fumetto, ai di fuori di quello di super-eroi, in grado di scatenare l’interesse di un pubblico più vasto e non necessariamente legato agli appassionati di comics. Come venne dimostrato successivamente, non era sufficiente che un comic book fosse in bianco e nero, disegnato magari un po’ rozzamente, e autoprodotto (o pubblicato da una piccola casa editrice). Ben presto questi elementi, usati nella maggior parte dei casi in maniera scriteriata, si dimostrarono effimeri e, come erano arrivate velocemente, così, altrettanto velocemente, tantissime testate sparirono e vennero prontamente dimenticate. Se Cerebus riuscì a resistere per 300 numeri (a cui si aggiungono diverse comparsate in altre serie o pubblicazioni), lo si deve non solo alla tenacia e alla testardaggine dell’autore Dave Sim, ma anche alla qualità della serie, nonché ai territori della narrazione che provò a esplorare.

A differenza del primo Mind Game, l’episodio che uscì nel n. 28 non presenta un approccio sperimentale come il precedente, ma ritengo abbia un’importanza superiore. In questo albo Cerebus entra nell’Ottava Sfera e ha una nuova conversazione con Suenteus Po: quest’ultimo cerca di capire da quale parte si è schierato l’oritteropo, mentre l’altro spreme più informazioni possibili sulla città di Iest e sulla sua organizzazione. Siamo di fronte alla medesima ambientazione astratta, ma invece di pensare a una nuova idea grafica altrettanto potente, Sim usa uno strumento che si era già visto in altre pubblicazioni, ma che si rivelerà più influente: l’accostamento di un testo in prosa (in questo caso specifico, un dialogo) a delle immagini, decostruendo la tavola e non avendo paura a usare il vuoto (non il semplice spazio bianco tra le vignette) come elemento costitutivo ed essenziale della pagina.

Come accennato, questa soluzione non è certo una novità in sé. Per esempio, proprio qualche anno prima due tra i più importanti autori statunitensi dell’epoca avevano lavorato in quella direzione. Nel 1971 Gil Kane realizza il graphic novel fantasy Blackmark, pubblicato dalla Bantam Books, in cui cambia gli elementi costitutivi della pagina inframezzando a un testo in prosa delle vignette che non agiscono da illustrazione di ciò che è descritto a parole, ma ne sono la diretta prosecuzione, creando un unico flusso narrativo. Ci si sta allontanando dai libri illustrati, ma siamo ancora davanti a una forma ibrida che utilizza le immagini e la parola (con la presenza di qualche raro balloon) cercando di unire le caratteristiche del libro e del fumetto. Al di là delle motivazioni che hanno portato a questa scelta, il risultato finale non si può definire completamente riuscito.

Cinque anni dopo la Pyramid Books pubblica Chandler di Jim Steranko, libro diventato ormai quasi mitico. In questo caso, ci troviamo davanti a una scelta più radicale. I balloon vengono completamente eliminati e la pagina viene divisa in due: nella parte superiore di ogni pagina sono presenti due illustrazioni (a volte è un’unica immagine suddivisa in due) mentre nella parte inferiore il testo è composto in due colonne, quasi a ricreare visivamente quelle riviste dove venivano pubblicate le storie hardboiled a cui il libro di Steranko si ispira. Sebbene i disegni conducano avanti la storia, e non siano anche in questo caso un accompagnamento che potrebbe essere eliminato senza nuocere alla narrazione, più che al tentativo di realizzare qualcosa di nuovo o diverso, come aveva tentato di fare Kane, ci troviamo di fronte a una rielaborazione grafica di classe dei libri illustrati. Una svolta più estetica che una nuova strada da percorrere e su cui innovare.

Con Mind Game II Dave Sim riporta il discorso al fumetto “puro” e lo muta, adattandolo a questo medium. Nel caso specifico di questo episodio (in futuro, utilizzerà a più riprese questa tecnica), testi e immagini si rincorrono e si adattano gli uni agli altri nella forma più che nel contenuto. È un passo avanti rispetto al precedente Mind Game, in cui i medesimi elementi (dialogo tra Cerebus e uno o più personaggi da un lato, e il vagare “fisico” del Cerebus in uno spazio astratto dall’altro) vengono potenziati da questo rincorrersi lungo la pagina. Se l’immagine sembra quasi “rendere più fruibili” i dialoghi tra l’oritteropo e Po, c’è la novità di un testo che non è un semplice blocco di parole fotocomposte in forme e luoghi tradizionali, ma è un elemento che ha la possibilità di spostarsi a proprio piacimento.

Come accennavo all’inizio, Cerebus faceva parte di un gruppo di pubblicazioni che lettori e nuovi autori identificavano come seminali. Sim divenne un punto di riferimento per tantissimi autori esordienti (o quasi) grazie all’opera che stava portando avanti, per l’approccio “DIY” che caratterizzava la serie e per la promozione che faceva a nuovi creatori, pubblicando sempre degli estratti dei loro fumetti alla fine dell’albo. Fu capace di ispirare per il suo approccio vitale e vitalistico, in cui la forma, oltre che la sostanza, era un elemento indispensabile e dove la sperimentazione traspirava da ogni pagina. Questa influenza generale ha toccato anche questa tipologia di tavole e la possiamo ritrovare in diversi fumetti degli anni Ottanta e Novanta. Per illustrare concretamente questi effetti, ho scelto tre esempi di autori e generi, dove queste caratteristiche fanno capolino e dove possiamo vedere i modi in cui sono state sviluppate.

Formalmente, Hepcats di Martin Wagner è la serie più vicina a Cerebus. Pubblicata dal 1989 al 1994, è un fumetto in bianco e nero autoprodotto, con un taglio realistico e un’attenzione alla vita quotidiana, con protagonisti degli animali antropomorfi, in una maniera che può far venire in mente quello che avevano fatto nel decennio precedente Reed Waller e Kate Worley con la loro Omaha the cat dancer. Senza imitare Sim, il disegno segue quel tipo di realismo estremamente dettagliato, rafforzato da un tratteggio molto fitto; a questo, si aggiunge una continua variazione del taglio delle pagine, proprio come avviene in Cerebus Nonostante il successo iniziale e un tentativo di ripresa presso un altro editore, questa serie si blocca, apparentemente, per l’incapacità dell’autore di dare una continuità alla pubblicazione. Wagner ha ormai abbandonato completamente il mondo del fumetto, e Hepcats rimane una di quei piccoli gioielli incompiuti, che avrebbero meritato un destino migliore. Nel suo caso, il testo che accompagna le immagini viene usato in molti casi come monologo di un personaggio che “interrompe” momentaneamente il racconto.

Starchild di James A. Owen ha avuto un destino migliore, andando avanti per circa quindici anni, a partire dal 1993, prima autoprodotto e poi, per un breve periodo, pubblicato dalla Image Comics. Quello dell’editore non è stato l’unico cambiamento, dato che nella parte finale della sua pubblicazione passa dal fumetto alla narrativa (carriera che Owen continua a perseguire, con la serie fantasy The Chronicles of the Imaginarium Geographica). A un certo punto, però, anche questa incarnazione ha dovuto interrompersi. Ispirato da un fantastico che condivide certe atmosfere analoghe a quelle del Sandman di Neil Gaiman, Starchild è perfettamente inserito nello spirito di fumetto indipendente portato avanti da Dave Sim, nonché da una libera composizione della tavola, in cui la presenza delle parti testuali preannunciano quel desiderio a cui avrebbe dato libero sfogo negli anni a venire.

L’ultimo esempio è una scelta solo apparentemente controcorrente. Prima di diventare un famoso sceneggiatore di super-eroi, Brian Michael Bendis esordisce come autore completo di alcuni fumetti noir. Fire, Goldfish, Jinx, Torso (prima pubblicati in comic book, successivamente raccolti in volume) presentano le caratteristiche che abbiamo già trovato negli autori precedenti e in Sim: varietà nell’impostazione della tavola a seconda del ritmo (spesso concitato) che l’autore vuole trasmettere, un’attenzione maniacale alla parola e all’uso del testo scritto in cui i balloon e le didascalie si autogenerano e moltiplicano, nonché un utilizzo delle onomatopee grandi e visibili per sottolineare il suono che rappresentano graficamente. A differenza degli autori precedenti, Bendis non è un disegnatore particolarmente dotato ma, nonostante le sue mancanze, riesce a realizzare un fumetto energetico e ricco di invenzioni. In queste prime prove, la parola si fonde contemporaneamente con il ritmo della singola pagina e dell’intera storia. Sotto il suo controllo, la tavola esplode in tutte le direzioni e la parola, come segno grafico, domina tutto. Non è un caso se quando passa alla Image, Marvel e DC Comics, viene preso per le sue doti di sceneggiatore.

Per quanto riguarda il fumetto, la strada del testo affiancato all’immagine descritto fino a questo punto sembra esaurirsi ma, paradossalmente, questa elaborazione continua e si sviluppa maggiormente nell’ambito della narrativa. Per esempio nel 1993 Jules Feiffer realizza The man in the ceiling (in italiano, Il supereroe del soffitto) in cui fonde la sua doppia anima di fumettista e di scrittore: il bambino protagonista, appassionato di comics e con il desiderio di diventare un disegnatore, realizza diversi fumetti che “interrompono”, diventando però parte integrante, la narrazione in prosa.

Una direzione simile la prende il romanzo The Explorers’ Guild: A passage to Shambhala di Jon Baird e Kevin Costner, illustrato da Rick Ross. Ispirandosi alle atmosfere dei romanzi di avventura usciti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento (sia nella storia che nella grafica del volume stesso), il libro presenta una periodica “irruzione” di sezioni a fumetti che interrompono la parte scritta per continuare la storia in questo modo. Non sembra esserci un criterio alla base della decisione di scrivere o disegnare una determinata situazione o sequenza, una causalità che rende quest’opera solo un oggetto estetico.

L’autore che invece percorre in maniera continuativa questa strada e questa tradizione è Brian Selznick che, con libri come La straordinaria avventura di Hugo Cabret, La stanza delle meraviglie e Il tesoro dei Marvel, usa disegni a doppia pagina per realizzare delle sequenze che mantengono allo stesso tempo l’unicità dell’illustrazione e la costruzione di una narrazione analoga a quella del fumetto (ogni disegno è fondamentalmente una vignetta), e che si inseriscono in maniera indissolubile all’interno del testo scritto, creando un prodotto dove la parola e l’immagine hanno eguale forza e importanza, senza che ci sia una subalternità di una delle due forme nei confronti dell’altra.

Ti è piaciuto? Condividi questo articolo con qualcun* a cui vuoi bene:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

(Quasi)