La pelle di O-Yuki

Francesco Pelosi | Fuori tempo |

La pelle di O-Yuki è bellissima, morbida e compatta allo stesso tempo, e il suo seno, né troppo grande né troppo piccolo, emana calore agli occhi che lo guardano. Il corpo di O-Yuki è ipnotico, potente come l’incantesimo del fuoco. Lo sguardo e il naso di O-Yuki somigliano a quelli affilati della lupa, e i capelli, nerissimi e quasi sempre raccolti sulla nuca o nascosti da un copricapo, ne sottendono l’indole combattiva e predatrice. Il suo essere una donna padrona della sua vita.
O-Yuki è una Gômune, un’artista di strada, ed è così sfrontata e abile con la spada da essere diventata una Besshiki-Onna, una combattente al servizio di un Daymiô. Ha disatteso troppi ruoli dunque: prima quello di donna e sottoposta, e poi quello ereditato dalla famiglia in cui è nata. Suo padre dice che «di questi tempi il rango di una persona è come una barriera inamovibile. La cosa migliore è accettare la situazione e rimanere fedeli al proprio rango fino alla fine dell’esistenza. Tanto più per una donna». Ma lei evidentemente non è d’accordo.

Kazuo Koike e Gôseki Kojima raccontano la storia di O-Yuki nel ventitreesimo episodio di Lone Wolf & Cub, intitolato Artisti di strada, esercitando su di me un fascino spiazzante. Già dalla prima tavola mi accorgo che questa donna che mi sta guardando dritto negli occhi, con un pugnale in mano e uno strano bambino disegnato sul petto nudo, è completamente diversa da quelle viste fin’ora nella serie. Soprattutto, completamente diverso è l’erotismo che emana e che attraversa la pagina, invadendomi. Gli altri corpi femminili mostrati in precedenza erano accoglienti o remissivi, senza una vera e propria personalità, nemmeno quello malato della moglie di Ôgami Ittô, più vicino quasi a una mera funzione narrativa. Ma quello di O-Yuki, candido, nudo e in posizione di attacco, mette subito a disagio il mio sguardo maschile, costringendolo a una posizione difensiva, di confronto. E il piccolo Kintaro disegnato sul seno svolge il suo compito e mi distrae, imbarazzandomi, con quella sua boccuccia appoggiata al capezzolo sinistro mentre le manine cicciottelle e bramose tendono a quello destro. Tentenno, stupito. Quasi mi vergogno. Non so cosa gli autori mi stiano mostrando. Quale strana sessualità io stia incontrando, in questo fumetto finora fatto di samurai, paesaggi e filosofia.

Torno a guardare il volto di O-Yuki, prima solo intravisto. E i suoi occhi mi dicono ciò che non avevo colto, decisi e penetranti come quelli di un assassino. Sono pregni del sakki, l’energia fisica quasi palpabile in cui si concentra il desiderio di uccidere, che ho imparato a conoscere fra le pagine. Mi trovo di fronte a un altro tipo di nudo, un’altra pornografia, una differente tensione erotica, la cui commistione perfetta di amore e morte fa esplodere la pagina.
D’altra parte Unokichi, l’esecutore di tatuaggi che ha potuto toccare a lungo la pelle di O-Yuki, l’ha detto: «Mai usati i miei aghi per una bellezza simile: né prima né dopo. Non parlo solo dell’aspetto esteriore. Mi riferisco alla qualità della sua pelle! Quando noi artisti dei tatuaggi parliamo di una bella donna non ci riferiamo al suo viso o al suo corpo, ma sempre alla pelle!».

Ma la bellezza della pelle di O-Yuki, il suo disegno, non é un’immagine fatta per essere guardata: é una bellezza, un’immagine, che guarda.
O-Youki si è fatta tatuare sulla schiena una vecchia e orrenda megera che imbraccia una falce, e sul petto un Kintaro, un bambino selvaggio con la pelle rossa, intento a succhiarle latte da un capezzolo. Ha detto a Unokichi: «Non importa di che immagine si tratti; basta che attiri l’attenzione di tutti. Che colpisca. Anche un’immagine orrenda, capace di incutere timore, sarebbe perfetta, o magari qualcosa che faccia impazzire di desiderio gli uomini».
E questo esattamente accade, mentre la guardo in tutte le pagine del racconto. Il suo spirito vitale ruba completamente la scena a Ôgami Ittô, “Il lupo solitario e il suo cucciolo” protagonista della serie. Il suo corpo perfetto, la sua pelle bianca istoriata in maniera oscena, sono un’immagine che mi ipnotizza, impedendomi ogni movimento.

La stessa immagine mesmerizzante che O-Yuki subisce da Kozuka Enki, l’uomo che l’ha violentata e che lei ha giurato di uccidere. È a causa sua se ha tatuato il suo corpo in quel modo. Kozuka Enki combatte con una tecnica illusoria mirata a confondere lo sguardo dell’avversario, distratto dalle fiamme con cui avvolge la sua spada.
Il combattimento fra O-Yuki e Kozuka avviene di notte, i due si fronteggiano avvolti in un’oscurità che Gôseki Kojima rende come sfumata, una nube nera che li avvolge. Sembra quasi un difetto dello sguardo di chi legge, ricorda l’effetto notte dei film quando ancora non c’erano lenti adatte per girare in notturna. Mentre sfogli quelle pagine devi strizzare gli occhi ogni tanto, per capire se stai vedendo bene. Poi, in quel buio offuscante, la spada di Kozuka prende fuoco mentre lui esorta O-Yuki a non fissare la lama ma a guardarlo negli occhi. E O-Yuki, ipnotizzata dall’immagine del fuoco, cade mentre il buio – il corpo nero di Kozuka Enki – la avvolge.
Kozuka è un’ombra nera, O-Yuki una pelle bianca. La loro sembra una danza immobile fra ombra e luce. Ma è uno stupro. O-Yuki è stata sopraffatta da un’immagine, lo sguardo che gli uomini hanno su di lei. Per questo decide di tatuarsi la pelle, per renderla davvero un’immagine, per essere lei lo sguardo che immobilizza, che trafigge, libero di guardare.

Un gruppo di assassini mandati dal Daymiô per ucciderla, sorprendendo O-Yuki immersa nell’acqua di una fonte commentano: «anche una Besshiki-Onna resta pur sempre una donna: se l’attacchiamo mentre è nuda il pudore le impedirà di muoversi». Ma nel momento in cui lo fanno e lei esce dall’acqua mostrando il corpo nudo e tatuato, ecco che chi rimane impietrito sono gli uomini-assassini, colpiti nell’onore, nella vergogna, nel desiderio. Gli occhi di quegli uomini la vedono e ne hanno paura, perché le immagini con cui O-Yuki ha trasformato il suo corpo, estraendolo così dalla funzione sociale pornografica, scatenano nel maschio che la affronta un cortocircuito a cui non è pronto. La pelle di O-Yuki non è più il corpo di una donna sottomessa, di una prostituta, di una serva, o di una regina inarrivabile. Quella pelle é ora, per gli uomini del Daymiô e per me che la vedo sulla pagina, un’immagine ipnotica e destabilizzante, una luce che attacca, invisibile e non classificabile. La libertà di O-Yuki dagli sguardi del maschile. 

Come le dice Ogami Ittô, mentre il corpo bianco di O-Yuki brucia tra le fiamme di un falò funebre: «Gli occhi del tuo nemico non ti feriranno più». E io so che quegli occhi, ora inoffensivi, erano anche i miei.

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