Ritmolento

Boris e Paolo | QUASI |

«La Formica che ha il difetto
di prestar malvolentieri,
le domanda chiaro e netto:
– Che hai tu fatto fino a ieri?
– Cara amica, a dire il giusto
non ho fatto che cantare
tutto il tempo. – Brava ho gusto;
balla adesso, se ti pare.»

Mentre eravamo tutti presi dall’elogio della cicala, ci siamo resi conto di quanto odiamo la formica. E mica la detestiamo per la sua antipatia, per quel suo invito finale alla danza della fame, per il suo aderire pienamente alle convenzioni sociali e ai tempi di una vita scandita soltanto dai ritmi del lavoro. La odiamo perché, pur cercando di identificarci pienamente con la cicala, con la sua spensieratezza, con la sua voglia di godere, qui e ora, sappiamo che noi siamo la formica.

Lo abbiamo scoperto una mattina facendoci la barba. Un errore banale ma comprensibile. La maledetta sveglia, il sonno, gli occhi cisposi, i mezzi da prendere, la necessità di arrivare in ufficio con un aspetto decente. In quelle condizioni ci vuole niente a sbagliare. Capisci di aver fatto una cazzata ancora prima di sentire il dolore. Te lo suggerisce la resistenza della pelle alla corsa della lama. In mezzo all’accumulo di schiuma e peli che trascini verso il basso, ti aspetti di veder comparire la chiazza rossa che dichiara con fierezza la tua umanità. E invece niente. Guardi nella ferita pulita e scopri fili, cavi e ingranaggi. E a quel punto, ti rendi conto che quel segno sul petto che ti è sempre sembrato normale nasconde, in realtà, uno sportello. E quando lo apri, eccolo! Il nastro perforato su cui è impressa la tua percezione del reale.

Abbiamo mentito. Non ci siamo mai fatti la barba al mattino prima di andare in ufficio. Arrivarci in condizioni decenti non è mai stata la nostra preoccupazione principale. Ma la trasandatezza e l’abbigliamento casuale più che casual sono state le sole infrazioni alle regole del mercato del lavoro che ci siamo concessi. Proprio come La formica elettrica del racconto di Philip K. Dick (che hai sicuramente riconosciuto nel rozzo riassunto della barba di poco fa), abbiamo capito all’improvviso, per una banalità minuscola reiterata continuamente, quanto la vita che abbiamo scelto di vivere sia meccanica e ripetitiva. Quanto il sistema di regole assurde cui abbiamo accettato di aderire, pur di permetterci una vita decente, ci impedisca di vivere una vita decente.

Facciamo QUASI per vivere. Perché vogliamo e perché dobbiamo. E dobbiamo perché se non lo facciamo ci sentiamo meno vivi.
E poi arriva la vita che, come sempre, ci sbatte in faccia i suoi continui paradossi. Già. Perché, se lo facciamo tutti i giorni, continuamente, con due o tre articoli al giorno, quel ”dovere” subisce uno slittamento semantico. Diventa lavoro. E il nostro canto di cicale, costrette a farlo tenendo il ritmo e con continuità, diventa indistinguibile dalla fatica delle formiche.

Ritmolento, allora.

Per un po’, niente mirmecofuga, niente corsa infinita della formica sull’anello di Möbius come in un disegno di Escher, niente struttura da settimanale che ci costringe a tenere una cadenza che ci siamo dati per gioco, niente lavoro. Abbiamo cantato e adesso balliamo. Nei prossimi giorni, sulla lunga colonna di QUASI, la rivista che non legge nessuno, gli articoli si diraderanno un po’. O forse no. Arriveranno con il ritmo che tutte e tutti scegliamo di tenere. Non è mica detto che il nostro ballo debba per forza assecondare una coreografia. C’è chi saltella e chi oscilla, chi bascula e chi poga, chi fa un grand fouetté en tournant e chi twerka, chi dà il senso della danza muovendo appena i pugni accanto al capo e chi si dimena e simula un’immersione, chi fa acrobazie e chi sorseggia un gin tonic…

In ogni caso, QUASI non si ferma.

Buon ritmolento.

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(Quasi)