Perditempo

Paolo Interdonato | Pantomime del Calisota |

Ho capito molto presto che ci sono due cautele da tenere in debita considerazione quando si deve dare una cattiva notizia a qualcuno, una di quelle che producono delusione e dolore. La prima preveda che tu faccia accomodare il tuo interlocutore: è più difficile avere un mancamento quando si è seduti. La seconda è che la via di fuga deve essere sgombra e facilmente accessibile.
Ecco. Sto per deluderti. Siediti, per favore.
Amo molto gli X-Men di Chris Claremont. Se mi capita tra le mani un albo con quelle storie, ecco, lo rileggo volentieri. Ho intercettato quei mutanti cosmopoliti, bambino, alla loro prima uscita italiana e li ho inseguiti nella pubblicazione sparpagliata operata da Editoriale Corno. Erano affiancati a personaggi forse più noti, in testate che a un certo punto sembravano buttate lì a caso da redattori che infilavano i fumetti in un dato periodico solo perché dovevano riempire delle pagine. Poi, a un certo punto, nella seconda metà degli anni Ottanta, sono caduto nel tunnel del comic book d’importazione e ho scoperto l’esistenza di cose che forse adesso si sono estinte: la casella in fumetteria, il cambio del dollaro librario e la prenotazione da “Previews”.

All’inizio del 1993, Claremont, dopo una traiettoria narrativa sempre più sconclusionata e farneticante, aveva lasciato Marvel da un po’. Io, invece, continuavo a seguire i mutanti anche se quasi esclusivamente per pigrizia (non trovavo il coraggio di interrompere gli abbonamenti), acquistando anche le testate in cui lo sceneggiatore non aveva mai messo lo zampino. Ero andato a ritirare la pigna di albetti spillati nella fumetteria in cui mi servivo e mi era finito nella sportina anche l’ottantasettesimo numero di “X-Factor”. A casa avevo iniziato a leggere svogliatamente i miei comic book. Questo, in particolare, aveva un apertura divertentissima: c’era Rhane, una giovane licantropa, disegnata in stile cartoonesco da Joe Quesada. La storia filava. Dopo le vicende dei numeri precedenti, i membri di X-Factor, che in quel momento rispondevano al governo, venivano sottoposti a seduta psicanalitica per verificare il loro stato di salute dopo il trauma cui erano sopravvissuti.
Recupero l’albo, scritto da Peter David, da un sito pirata e lo riguardo rapidamente, facendo scorrere le immagini sullo schermo con la punta dell’indice.
Sembra di assistere a una stagione di In Treatment compressa in un comic book: sequenze di due o tre pagine in cui tutti i membri vengono fatti a fette dalle domande precise del dottore e tutti, uno dopo l’altro, mettono in evidenza il punto di contatto, decisamente nevrotico, tra il loro immenso potere e il grande dolore che sentono dentro.

Recupero la sequenza che mi aveva colpito di più, quella dedicata a Quicksilver. L’analista gli chiede il motivo della sua rabbia:

«Mi dica, dottore, le è mai capitato di essere in fila al bancomat dietro a uno che non lo sa usare? Oppure in posta per comprare un francobollo e il tipo davanti a lei sta chiedendo ogni singolo dettaglio su come si spedisce un pacco a Istanbul? Come si è sentito in quelle occasioni?»
«Impaziente, irritato, un po’ arrabbiato qualche volta…»
«Proprio così, perché la sua vita è stata rallentata dal comportamento sconveniente di qualcuno. Non è un atteggiamento razionale o sensato, ma è quello che succede. Ora, provi a immaginare, dottore, che tutto quello che fa, ogni luogo che visita, tutto il suo mondo, sia una fila infinita di persone che non sanno usare il bancomat.»

Una descrizione che mette i brividi. In questi mesi di distanziamento e di file fuori dai negozi, tutti abbiamo visto cosa succede a noi e agli altri esseri umani mascherati (che hanno spesso difficoltà a mantenere distanza e naso coperto) quando la persona che è dentro il negozio ci mette un tempo che ci sembra irragionevole. Impazienza, irritazione, rabbia.

Chiusi in casa, con poche valvole di sfogo, mi dedico ad acquisti compulsivi. Compro tutti i libri che desidero prima di essermi interrogato sul momento in cui li leggerò. Accumulo metri di saggi, fumetti, perfino qualche romanzo sugli scaffali e il tempo che impiego a leggerli, sfogliarli, soppesarli e riporli nella libreria o nel cassonetto è sempre maggiore a quello entro cui farò almeno un altro acquisto. Vittima di un paradosso temporale, sono l’incapace al bancomat davanti a me stesso. Quando acquisto, ho un’immagine di un me futuro più efficace ed efficiente della creatura in carne e ossa che ci mette sempre troppo tempo a fare tutto. E divento impaziente, mi irrito, mi arrabbio.

Allora, per farmi dispetto, per deludermi, per irritarmi, rallento ulteriormente. Invece di dedicarmi alla lettura dei nuovi volumi che sono comparsi in casa da poco, mi muovo tra le mensole e pesco libri che mi piace riguardare. Mi faccio consolare dai miei miti. Mi accoccolo tra i miei amori. Godo del ritmolento.
Il primo volume che prendo dalla libreria è sottile e brossurato. Non appena l’afferro le pagine si staccano dalla copertina, accompagnate dallo scricchiolio della colla secca. Vive con me da almeno tre decenni ed è stato sfogliato e letto decine di volte. La scarsa cura nella scelta dei materiali, l’usura e il tempo lo hanno trasformato in un mucchio di fogli sparsi di carta patinata raccolto alla bell’e meglio in una copertina di cartoncino. Donne: odori, nei, peli e altri fantasmi è una raccolta di fumetti di Filippo Scòzzari, pubblicata a metà degli anni Ottanta da Primo Carnera, la casa editrice della rivista “frigidaire”. Sono storie brevi e densissime che raccontano un rapporto difficile con il proprio desiderio. Il fumetto che apre la raccolta è Odori ed è una ricostruzione olfattiva dell’infanzia. In quei ricordi non traspare alcuna gioia. Antoine Doinel (o un suo epigono), che nel cortometraggio d’esordio di François Truffaut, Les Mistons, annusava il sellino da cui era appena smontata una bellissima ciclista, ci diceva di un’età difficile, e poco innocente, in cui c’era un sacco di spazio per il dolore ma anche per la gioia. Sono memorie artefatte tanto quelle di Truffaut quanto quelle di Scòzzari, ma mentre nel primo si percepisce l’urgenza di perdonare il proprio essere stato bambino, nel fumettista prevale il rimpianto.

«Le rarissime volte che riuscivo a convincere mia madre a comprarmi “Topolino”, la prima cosa che facevo appena l’avevo tra le mani era di aprirlo e odorarlo nel mezzo. La seconda era di cercare se c’era il Paperino di Barks. Quella carta e quei colori ce li ho ancora nel naso. Sia maledetto Mondadori per la carta che usa adesso e per il Paperino che non mi dà più.»

Le donne promesse dal titolo, nel libro di Scòzzari, a voler essere onesti, non ci sono. Come, del resto, nella quasi totalità dei fumetti realizzati da maschi. I personaggi femminili sono quasi sempre proiezione dei desideri degli autori. Allora, mi sposto tra le mensole e pesco uno dei quattro volumi che Coniglio editore prima e Comicout dopo hanno dedicato alla raccolta completa delle storie di Valentina Mela Verde di Grazia Nidasio. Sono storie brevissime di tre pagine che si sviluppavano settimanalmente come se fossero un incrocio tra il diario di una ragazza (e della sua sorella minore) e un feuilleton di Wolinski e Pichard. Non sono mai riuscito a leggere quei volumi dall’inizio alla fine. Li prendo in dosi omeopatiche: qualche storia sparsa prima di riporli. E quelle poche pagine, che hanno più o meno mezzo secolo addosso, mi bastano per recuperare il senso del tempo.

«”Signorina, non faccio per vantarmi ma lei danza come una libellula. Così leggera e folleggiante, danzerei con lei per una vita!” “Se questa non è una proposta di matrimonio, non sono più la Gerusalemme Liberata.”»

Max è un autore spagnolo che ha esordito negli anni Settanta come fumettista underground, in un posto e in un tempo in cui quella definizione aveva realmente senso, e che è poi stato tra i fondatori della rivista “El Víbora”. Da anni cerco di procurarmi tutti i volumi di “Todo Max”, la collana, strana e disordinata, che la casa editrice La Cúpula gli ha dedicato. Leggere lo spagnolo mi risulta difficilissimo. Mi perdo in quelle pagine, quasi sempre indifferente alle parole. A un certo punto, durante una gita a Madrid, ho trovato un volume che omaggia i primi trent’anni del lavoro di questo straordinario narratore. Si chiama EspiaSueños (1973 – 2003). È una bellissima raccolta di illustrazioni in cui lo sguardo vortica fino a quando non si è completamente perduti. Ognuna di quelle immagini, pur non essendo affiancata a nessun altra (e negando così la possibilità di quella che  qualcuno chiama “arte sequenziale”), è potentemente narrativa e ti precipita nell’immaginario dell’autore, nei suoi racconti, nel suo mondo in cui divinità provenienti dalle mitologie più distanti si mescolano a fricchettoni, visioni ipnagogiche, linea chiara, attrici porno, creature del mare, twist, oggetti perduti e cazzeggio.

Perso tra feuilleton e memorie d’infanzia mi trascino fino ai tre volumetti dedicati da Francesca Ghermandi a Pastil/Pasticca. Poi rimbalzo verso il Nido dei Marsupilami di Franquin. E quindi sfioro la costa di Howard The Duck di Steve Gerber. Poi i volumi che raccolgono i comic book di Harvey Kurtzman.E Osamu Tezuka, Lauzier, Nicole Claveloux, Vaughn Bodè, Jim Steranko, Chas Addams, Sanpei Shirato, Moyoko Anno, Franco Matticchio, Ralph König, Marco Corona, Walt Kelly, Chantal Montellier, … E, dannazione, sto di nuovo correndo per non rallentare me stesso. E là dietro ci sono io che aspetto spazientito il mio turno per leggere tutti quei libri e quegli albi bellissimi che ho appena comprato.

Ti è piaciuto? Condividi questo articolo con qualcun* a cui vuoi bene:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

(Quasi)