Quello che voleva dire

Boris Battaglia | Affatto |

Il primo problema è l’uso del tempo verbale. Quello che voleva dire. Usare un tempo narrativo come l’imperfetto indicativo per sostenere di non essere stati compresi, è una facile strategia retorica per sfuggire alla responsabilità di quanto effettivamente detto.

In realtà se tu dici una cosa e dopo che l’hai detta ti sembra che io ne ho capita un’altra, la questione non è quello che volevi dire, perché quello che volevi dire lo hai detto ed è quello che io ho capito; ma quello che avresti voluto dire e non hai detto. Se non l’hai detto, io non potevo capirlo.

In questo senso, quello che avrebbe voluto dire Gipi è irrilevante. Ai termini della questione, se la questione fosse questa, ciò che sarebbe rilevante è quello che voleva dire e che ha detto.

Va bene, ma cosa ha detto? Anzi meglio, cosa ha realizzato?

Una striscia umoristica costruita sui tempi di quella cosa antica, formalizzata da Plauto e poi diventata, anche stucchevolmente, il fulcro principale del nostro cinema umoristico: la commedia degli equivoci.

Ma quindi quello che ha detto è esattamente la forma in cui lo ha detto? Certo. Perché non mi ha raccontato una barzelletta al bar, per cui avrei potuto sorridere e pensare «che vecchio reazionario!» e non mettere più piede nel bar. Lo ha fatto con lo strumento espressivo che più di tutti si identifica con la forma (formato) in cui viene usato: il fumetto.

Qui le cose si complicano e incontriamo il secondo problema.

Platone, lo sai, a me mi sta abbondantemente sul cazzo. Per esempio: quando nel Cratilo sostiene che i termini linguistici, cioè queste stramaledette parole scritte, sono le rappresentazioni corrette delle cose perché ne descrivono l’essenza stessa, mentre le immagini ci somigliano solo vagamente alle cose, perché, nel migliore dei casi, ne condividono qualche proprietà visiva come la forma e il colore; a me, ecco, mi viene da prendere il volume dei Dialoghi e buttarlo nel cassonetto bianco.

Non fosse che è inutile. Perché quell’altro gran cervellone di Aristotele farà sua questa definizione, tanto che purtroppo ce la portiamo ancora addosso. Roba che ancora riempie tutta la riflessione di Peirce sull’immagine. Una puttanata (l’hanno definita infatti teoria ingenua dell’immagine) che qualcuno ancora condivide, quella della raffigurazione come somiglianza oggettiva tra l’immagine e il suo soggetto. Secondo la quale un’immagine raffigura il suo soggetto solo se l’immagine stessa assomiglia al suo soggetto. Ti rendi conto che secondo questa teoria Maus, per esempio, sarebbe, inintelligibile.

Per nostra fortuna Cartesio (che probabilmente Pierce non aveva, e un sacco di gente contemporanea che si occupa di immagini non ha, letto) sta roba qui l’ha smentita già a suo tempo, dimostrandola per la cazzata che è (nella Diottrica): infatti non ci vuole un filosofo del cazzo, basta l’evidenza, a dimostrare che ci sono immagini che non condividono con quanto rappresentano né la forma né il colore. In realtà Platone, già nel Sofista si era accorto dell’insufficienza della sua teoria dell’immagine e ce ne aveva proposto un superamento distinguendo due tipi di mimesi caratterizzanti le immagini.
Una mimesi fantastica, che considera come parametri di somiglianza solo le proprietà di apparenza. Cosa che detta come mangiamo suona così: una cosa può apparire simile a un’altra senza essere questa altra cosa.
Una mimesi icastica, che cerca rapporto di simmetria tra l’immagine e il suo soggetto. E dico. Platone mi sta pure sul culo, ma qui coglie il punto fondamentale di tutta la cultura del guardare. L’immagine raffigura il suo soggetto nella misura in cui gli somiglia in proprietà relative a un osservatore. Raffigurare e somigliare sono relazioni di tipo diverso. E sono io che guardo quello che fa la differenza.

Ogni rappresentazione, diceva Nelson Goodman riprendendo la riflessione di Platone e superando Peirce, è tendenzialmente non-riflessiva. Sta sempre per qualcosa d’altro, non per sé stessa. Quindi la somiglianza non può essere condizione necessaria della raffigurazione. Ce un fottio di casi, il mondo là fuori, in cui c’è raffigurazione senza somiglianza. Tutte le volte, per esempio, in cui il soggetto della raffigurazione non esiste. Questo ha un senso dannatamente fondamentale per il fumetto. Pensaci, cazzo: non esiste, tanto per dirne uno famoso, un soggetto dell’immagine Topolino.

Fermati un attimo a riflettere si questa cosa.

L’inventario generale di ciò che c’è (ce lo ha insegnato Meinong) comprende anche cose che non esistono. Se il soggetto dell’immagine non esiste (prendi ancora il caso di Topolino) non cambia niente. Topolino, anche se non esiste, appartiene all’inventario di ciò che c’è, oseresti negare che Topolino c’è in ogni storia che di lui ci raccontano?

Per il Commissario Moderno funziona come per Topolino. È una raffigurazione senza somiglianza, un simulacro in cui non è possibile distinguere significante e significato. Spiegata facile facile: di un fumetto non è possibile una lettura allegorica. Quello che accade in un fumetto, magari non esiste, ma – a differenza di quello che accade nel cinema in cui è vero il contrario – è sempre reale. Io credo che Gipi sia caduto nell’errore (vuoi per l’uso di un contenitore ambiguo come Instagram, vuoi per la sua ossessione registica) di confondere i due piani ontologici. Ha preso il fumetto per il cinema. Per questo quello che i lettori hanno capito della striscia di Gipi è esattamente (e non viceversa) quello che Gipi ha detto. Non c’è nessun paradosso. Solo un equivoco che, quando viene chiarito facendoci scoprire che non era un maschio che menava una femmina, ma due femmine che si menavano a vicenda (Andrea, la seconda figura femminile, porta come Marisa i segni della lotta sul volto, e questo ridistribuisce reazionariamente in parti uguali la responsabilità della violenza all’interno della coppia), avrebbe dovuto far ridere. E invece ha fatto incazzare un sacco di gente.

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(Quasi)